Disuguaglianze di salute in Italia: longevità senza equità

L’aspettativa di vita varia sensibilmente tra le diverse regioni

Il servizio sanitario nazionale assicura una longevità senza equità sociale e territoriale.

Sono stati resi noti, gli scorsi giorni, i dati dell’Osservatorio Nazionale sulla salute degli italiani, a cura dell’Università Cattolica di Roma, a partire dagli ultimi dati Istat disponibili. Il quadro tracciato non è fra i migliori e ritrae un paese con forti contraddizioni in termini di assistenza, di benessere, di aspettativa di vita. Le chiavi di lettura dell’iniquità del sistema Italia, in sintesi, sono i determinanti socio-economici della salute e delle malattie e il sistema sanitario di riferimento.

Il primo elemento preso in considerazione riguarda la mortalità. Nel 2017 si è avuto un aumento del 5,1% dei decessi (31.000) rispetto all’anno precedente, per un totale di 647.000. Un dato in aumento che però, rispetto al 2015, non rileva variazioni (648.000 morti per uno stesso tasso generico del 10,7% contro quello di 10,1 del 2016). La spiegazione più acclarata è in relazione all’aumento delle classi di età relative all’ampiezza della popolazione anziana.

Quello che però assume rilievo è, partendo dai dati standardizzati, la differente distribuzione dei tassi di mortalità nel paese, che mostra una forbice troppo larga tra le zone geografiche. Per la precisione ad un tasso standardizzato di mortalità di 8,4% a livello nazionale, con una aspettativa di vita per gli uomini di 80,6 anni e di 84,9 anni per le donne, corrispondono valori migliori al Nord-est (7,9%) con un’aspettativa di 81,2 per gli uomini e di 85,5 per le donne, ed in particolare nella Provincia di Trento si raggiunge il 7,2% con un’aspettativa di 81,6 anni per gli uomini e 86,3 anni per le donne.

A questi valori alti, in senso positivo, corrisponde l’altro estremo con numeri peggiori e riferibili al Sud ed in particolare alla Campania, con tassi standardizzati di mortalità rispettivi del 9,1% e del 10%, ed un’aspettativa di vita di 79,8 e 78, 9 anni per gli uomini e di 84,1 e 83,3 per le donne.

  Mortalità tasso standard Aspettativa di vita uomini Aspettativa di vita donne
Italia 8,4 80,6 84,9
Nord-est 7,9 81,2 85,5
Trento 7,2 81,6 86,3
Sud 9,1 79,8 84,1
Campania 10 78,9 83,3

Al dato generale sul livello di sopravvivenza nel paese, che mostra l’accentuarsi della disuguaglianza fra Nord e Sud e fra aree ricche e povere, vanno portati alla luce, così come rilevato dall’Istat e mostrato dall’Osservatorio, la variazione dell’aspettativa di vita, della cronicità e della tendenza all’obesità nella popolazione in relazione al grado di istruzione.

Un basso livello di istruzione, corrispondente per il nostro paese alla scuola dell’obbligo e un livello medio alto, corrispondente al possesso di almeno un titolo accademico, mostra il profondo divario esistente fra la popolazione dove la presenza di una patologia cronica nella popolazione fra i 25 e i 44 anni prima e quella fra i 45 e i 64 poi (sostanzialmente la popolazione in età lavorativa), mostra rispettivamente dati relativi ad un peggioramento della cronicità in presenza di una bassa istruzione con un tasso di 5,8% per i più giovani e di 23,2 per la seconda fascia di età, contro il 3,2% ed il 11, 5% di cronicità nei più istruiti; in pratica la buona performance di salute in presenza di un’istruzione raddoppia.

Lungo questa prospettiva l’Istat rileva ulteriormente, all’interno dei fattori favorenti lo svilupparsi di malattie cronico-degenerative, come l’obesità sia maggiormente presente (14,5%) nei meno istruiti rispetto al 6% di quelli maggiormente istruiti. Non solo.

Il livello di istruzione della madre condiziona la tendenza all’obesità per i figli stessi che sarà del 30% nelle genitrici di bassa istruzione contro il 20% in quelle di istruzione più alta.

L’istruzione poi si combina con altri determinanti della salute per chiarire ulteriormente un quadro di iniquità del sistema Italia che non può più essere sottaciuto. Nella seconda fascia di popolazione abile al lavoro (45 – 64) cresce la tendenza alla rinuncia alle prestazioni sanitarie in relazione al grado di istruzione: basso (12%) e medio altro (7%). Una rinuncia che, se combinata alle motivazioni economiche, vede i possessori di un livello basso di studio rinunciare in misura di oltre 2/3 (69%) contro il 34% di coloro che hanno una laurea.

Florence Nightingale

In chi è più fragile, i rischi di veder peggiorare la propria salute sono superiori rispetto a chi ha maggiori risorse, ma questo è un dato che non può essere analizzato in maniera isolata dal contesto di riferimento. Infatti va notato – e lo sottolinea lo studio dell’Osservatorio – come entri in gioco anche il ruolo innescato dal servizio sanitario.

In quei sistemi sanitari di tipo mutualistico, come era una volta in Italia, la quota di popolazione con maggiori problemi di salute in chi ha un livello di istruzione bassa è di 15 punti percentuali superiore, mentre l’Italia, nel suo complesso – grazie ancora alla presenza di un sistema sanitario di tipo universalistico – vede un divario fra più e meno istruiti di soli 6,6 punti percentuali, con una disuguaglianza sanitaria – sembra quasi difficile da credere – inferiore a quella della Svezia.

In sintesi l’Istat e l’Osservatorio pongono l’attenzione su alcuni elementi di fondo: i determinanti socio-economici della salute e delle malattie e il sistema sanitario di riferimento. Questi sono la chiave di lettura per l’aumento (o riduzione) delle disuguaglianze sanitarie, per favorire od ostacolare l’accesso alle cure oppure, se non considerate, assumere un’ottica miope sulle questioni sanitarie unicamente correlate al funzionamento del servizio sanitario, mentre esse abbracciano un ampio paesaggio che rispecchia la società stessa in cui si vive.

Se poi questa società si sta impoverendo culturalmente e moralmente, oltre che economicaente e se il suo sistema sanitario subisce continuamente tagli, attacchi e spinte destrutturanti verso gli interessi speculativi di mercato, il quadro è completo di una combinazione esponenziale di problemi verso i quali sarà necessario far fronte a partire da tutte le risorse pubbliche, collettive, individuali, politiche e, non ultime, professionali, per non ritornare ad un paese dove era “normale” morire o impazzire di fame (pellagra), o di parto (o di aborto clandestino) o, molto più attuale, di una emorragia causata dall’uso di anticoagulanti di vecchia generazione e superati.

Un paese dove non ci si può ammalare semplicemente di miseria ed ignoranza, senza che nulla venga fatto.

 

Fonte: Nurse24.it