Dopo emergenza Covid-19 tutti uniti in sciopero

“Tutti uniti in un giorno di sciopero sotto un’unica bandiera, quella Italiana.” È la proposta lanciata da Shc Oss e Federazione Migep a infermieri, medici, oss, tecnici, amministrativi, volontari della Cri e della Croce verde e cittadini. “Una giornata di lotta tutti insieme – scrivono – per un riconoscimento a tutti i professionisti che oggi sono in prima linea e combattono una battaglia su più fronti.”

Migep-Shc: dopo emergenza Covid-19 tutti uniti in un giorno di sciopero

“Una giornata di lotta tutti insieme alla fine dell’emergenza e in sinergia con tutte le professioni del sistema salute sotto un’unica bandiera, quella Italiana, a Roma per un riconoscimento a tutti i professionisti che oggi sono in prima linea e combattono una battaglia su più fronti.”

È questa la proposta lanciata da Shc Oss e Federazione Migep a infermieri, medici, oss, tecnici, amministrativi, volontari della Cri e della Croce verde e cittadini. “Tutti – scrivono in una lettera – debbono allearsi per rinnovare il Ssn, tutti sotto un’unica bandiera quella Italiana a Roma in un unico sciopero nazionale. Auspichiamo un coinvolgimento dei vostri enti per questa giornata, necessaria per tutte le professioni nel post-emergenza, stabilendo insieme una data unica poiché pensiamo che ora più che mai gli Ordini e i sindacati di categoria debbono alzare l’asticella perché resterà nella storia che infermieri, Oss, Asa, Osa, Medici, Infermieri Generici, Puericultrici e altre figure, hanno combattuto in prima linea a costo della vita.”

“Tutti gli operatori della sanità e del socio sanitario, nessuno escluso, si stanno prodigando oltre ogni limite al fine di arginare questa pandemia – continua la lettera – l’opinione pubblica che sovente in passato ci vedeva come causa di una cattiva sanità, ora ci definisce eroi. Non siamo eroi. Semplicemente siamo delle persone come tante altre, con i propri pregi e difetti, che, ciascuno per il proprio ruolo e profilo di competenza, cercano di fare al meglio il proprio lavoro, affrontando, ogni giorno, le conseguenze degli spasmodici tagli che negli ultimi 15 anni sono stati fatti, indiscriminatamente, alla nostra sanità.”

“Ci troviamo tutti sulla medesima barca. Perché non remare tutti insieme contemporaneamente e far rotta verso il medesimo porto?”

“Perché non fare fronte comune e cercare, tutti insieme, medici, infermieri, infermieri generici, puericultrici, oss, asa, osa, tecnici, e altre figure di intraprendere un’unica e sola rivendicazione corale contro il proseguimento di una politica che ha massacrato la sanità e le cui conseguenze, da sempre denunciate, oggi il coronavirus ha messo ben in risalto ed evidenza.”

“Questo risultato scellerato era ben chiaro, ed altresì a tutti gli operatori assistenziali. Ora lo è anche per il cittadino utente. Noi stessi operatori viviamo un dramma doppio: prima come lavoratori del settore poi anche come cittadini utenti. La storia ci ha insegnato che nei momenti difficili e bui si è sempre costituito un fronte comune per lottare. Uniti si vince, divisi si perde sempre. Divisi abbiamo perso delle battaglie i cui esiti oggi sono sotto gli occhi di tutti. Ora proviamo ad unirci insieme e a vincere la guerra.”

Coronavirus, bonus da mille euro a testa per i sanitari

Tutti i medici, infermieri, tecnici e operatori socio-sanitari impegnati in queste settimane negli ospedali dell’Emilia-Romagna contro il Covid-19 riceveranno un bonus di mille euro come “segnale concreto di riconoscimento” da parte della Regione. Ad annunciarlo, il sottosegretario Davide Baruffi, in conferenza stampa col governatore Stefano Bonaccini. “Sarà una tantum – ha sottolineato Baruffi – ma vogliamo che arrivi subito nelle loro tasche.”

Misura da 65 milioni di euro per riconoscimento una tantum ai sanitari

Mille euro a testa per gli operatori sanitari in prima linea nella lotta al coronavirus in Emilia-Romagna. È il contributo che la Regione ha deciso di assegnare come riconoscimento a tutti i medici, infermieri, tecnici e operatori socio-sanitari impegnati in queste settimane negli ospedali contro il Covid-19.

Vuole essere un “segnale concreto di riconoscimento – spiega il sottosegretario Davide Baruffi, in conferenza stampa col governatore Stefano Bonaccini – chi è in prima linea merita il plauso di tutti i cittadini e noi mettiamo in campo 65 milioni di euro per riconoscere ai lavoratori un contributo aggiuntivo di mille euro a testa.”

Si tratta di una “misura eccezionale per la sua dimensione – continua Baruffi – sarà una tantum, ma vogliamo che arrivi subito nelle loro tasche.” Per questo la misura è stata disposta in accordo coi sindacati e le rappresentanze dei medici di medicina generali. In questo modo, “riusciremo a erogarli immediatamente,” ribadisce Baruffi.

La misura rientra nel pacchetto da 320 milioni euro, tra investimenti e parte corrente, che la giunta regionale dell’Emilia-Romagna ha deciso di mettere in campo per rispondere all’emergenza coronavirus.

Tra gli interventi previsti, oltre al premio ai sanitari impegnati nell’emergenza (65 milioni di euro), 20 milioni di euro per creare l’hub nazionale di terapia intensiva. Il pacchetto di misure è stato deciso “mobilitando tutto quello che è disponibile”, hanno sottolineato Baruffi e Bonaccini in conferenza stampa, “usando anche l’avanzo di bilancio.”

Saranno poi le parti sociali (sindacati, ndr.) anche a livello aziendale a decidere la ripartizione del contributo: di più a chi è stato in prima linea e meno a chi ha lavorato in altri reparti. Spiegano Baruffi e Bonaccini.

Il nuovo studio su coronavirus e terapie intensive in Lombardia

È il più completo diffuso finora: tra i 1.600 casi gravi esaminati un paziente su quattro è morto dopo il ricovero, e i tempi di degenza per chi sopravvive sono spesso lunghi.

Un gruppo di medici e ricercatori che lavorano in Lombardia ha pubblicato una prima indagine sulle caratteristiche e gli esiti di quasi 1.600 ricoveri nelle unità di terapia intensiva, effettuati nelle ultime settimane negli ospedali lombardi a causa delle infezioni da coronavirus. Lo studio, uno dei più completi finora diffusi sui casi della Lombardia, è stato pubblicato sulla rivista scientifica JAMA e mostra quanto la COVID-19 comporti lunghi periodi di degenza nelle terapie intensive, con un’incidenza piuttosto alta dei decessi soprattutto tra i pazienti più a rischio (anziani e con precedenti malattie).

Nell’80 per cento dei casi circa la COVID-19 causa sintomi piuttosto lievi, come febbre e tosse secca, che possono essere trattati a casa con i comuni farmaci da banco. Il restante 20 per cento manifesta invece sintomi più seri, soprattutto ai polmoni, che possono rendere necessario il ricovero in ospedale. Nei casi più gravi si fa ricorso all’intubazione nelle unità di terapia intensiva, per aiutare i pazienti a respirare meglio e ad affrontare i sintomi della malattia, in attesa che il sistema immunitario impari a riconoscere e a sconfiggere il coronavirus.

Lo studio, che ha come primo firmatario Giacomo Grasselli del Policlinico di Milano, ha utilizzato i dati raccolti dalla rete delle terapie intensive organizzata dalla Regione Lombardia per coordinare i ricoveri negli ospedali lombardi, e che soprattutto nelle prime settimane dell’emergenza sanitaria ha dovuto gestire centinaia di nuovi casi gravi ogni giorno.

I pazienti compresi nell’indagine avevano ricevuto una diagnosi di COVID-19 tramite test di laboratorio, ed erano stati trasferiti in una delle terapie intensive dei 72 ospedali della Lombardia compresi nella rete di coordinamento. I dati fanno riferimento a quasi un mese di attività, da metà febbraio a metà marzo, comprendendo quindi l’inizio dell’epidemia italiana con i casi nel lodigiano.

I casi presi in considerazione sono stati 1.591. L’età mediana dei pazienti era di 63 anni: 363 pazienti avevano almeno 71 anni, 203 ne avevano meno di 51. L’82 per cento dei pazienti era di sesso maschile.

Il 68 per cento dei pazienti aveva almeno una comorbidità, cioè la coesistenza di altri problemi di salute. L’ipertensione era la patologia più comune (49 per cento) tra un sottogruppo di 1.043 pazienti per i quali erano disponibili informazioni più dettagliate. La seconda comorbidità erano problemi cardiovascolari (21 per cento) e il colesterolo alto (18 per cento). Solamente il 4 per cento dei pazienti aveva problemi pregressi seri a carico del sistema respiratorio. Tutti i pazienti con più di 80 anni avevano almeno una comorbidità, così come il 76 per cento dei pazienti sopra i 60 anni.

Lo studio fornisce informazioni interessanti su condizioni ed esiti dei ricoveri in terapia intensiva. Su un sottogruppo di 1.300 pazienti con informazioni più dettagliate, il 99 per cento ha avuto bisogno di ventilazione non invasiva (mascherine con ossigeno, caschi) o invasiva (intubazione): la stragrande maggioranza di loro – 1.150 pazienti – è stata intubata.

Il 26 per cento dei pazienti ricoverati in terapia intensiva nel periodo preso in esame è morto, con una maggiore incidenza della mortalità tra gli individui più anziani. La mortalità tra i pazienti fino a 60 anni è stata del 15 per cento contro il 29 per cento di quella per gli individui da 61 anni in su.

Alla fine del periodo preso in analisi, il tempo mediano di permanenza dei pazienti in terapia intensiva è stato di 9 giorni. Il tempo mediano di permanenza per gli individui morti in terapia intensiva è stato di 7 giorni. Le cause dei decessi sono molto varie e l’incidenza è probabilmente dipesa dal momento del ricovero, rispetto all’avanzamento della malattia e alle condizioni dei singoli pazienti.

Lo studio segnala quindi che circa un paziente ogni quatto ricoverati in terapia intensiva è morto a causa della malattia e delle sue condizioni di salute pregresse (anche se queste non sono sempre state necessariamente un fattore determinante). La maggior parte degli individui in condizioni critiche era di sesso maschile e con età al di sopra dei 64 anni. La ricerca osserva inoltre come la percentuale di pazienti sottoposti a intubazione fosse particolarmente alta se confrontata con i dati messi a disposizione da ricerche svolte in altri paesi sempre sui reparti di terapia intensiva.

L’indagine svolta in Lombardia è importante soprattutto per la quantità dei dati raccolti, che ha permesso di avere un quadro complessivo della situazione nelle terapie intensive finora non disponibile. Gli autori invitano comunque a valutare con cautela alcuni dati, ricordando che lo studio ha qualche limite sia per il fatto di avere raccolto informazioni retrospettivamente, sia per non avere avuto accesso a tutti i dati necessari per ogni paziente.

Lo studio non offre inoltre elementi per valutare la convalescenza degli individui dimessi, né le prospettive per chi continua a essere ricoverato da settimane in terapia intensiva. L’intubazione per un periodo di tempo prolungato può causare forti stress al sistema respiratorio, con danni ai polmoni che richiedono tempi di recupero lunghi e in alcuni casi conseguenze permanenti, che si possono rivelare debilitanti. Il controllo nel medio periodo dei pazienti dimessi dovrebbe offrire nuove informazioni, per comprendere costi e benefici dell’intubazione e per migliorare protocolli e terapie da seguire per i pazienti ricoverati.

#iononcisto, gli Oss chiedono migliori condizioni operative

Gli OSS incroceranno le braccia il 9 aprile per ricordare i colleghi che hanno perso la vita per il Covid-19 e per chiedere migliori condizioni di lavoro. A farlo sapere sono la Federazione MIGEP e il sindacato SHC, che in un comunicato annunciano #Iononcisto: “la prima giornata nazionale dove gli OSS OSA, ASA, Infermieri Generici, Puericultrici incroceranno le braccia per tre minuti alle ore 11.00”

#Iononcisto, l’iniziativa Migep e SHC

È un messaggio diretto a tutti i politici quello lanciato da Migep e SHC, con “l’intento di far sentire la nostra voce e dare un peso alle nostre istanze a tutela di quel diritto alla salute che purtroppo, troppo spesso, nel corso di questa emergenza, ha sfiorato i connotati della pura retorica.”

Il riferimento, in particolare, è alla “carenza di DPI e alla trascuratezza dei tamponi” che sta caratterizzando il contesto assistenziale nel corso dell’emergenza Covid-19. “Noi operatori sanitari e socio sanitari – scrivono da Migep e SHC – abbiamo continuato a prestare tutto il nostro apporto nel tentativo di mettere fine a questa emergenza. Ora con questo piccolo gesto vogliamo ricordare che la battaglia non è ancora finita e che continueremo a garantire quel servizio che, anche se talvolta in condizioni precarie, non è mai venuto meno”.

Giovedì 9 aprile gli operatori socio sanitari e sanitari di tutta l’Italia si fermeranno per tre minuti a braccia conserte, lo faranno per ricordare tutti i colleghi venuti a mancare per il Covid-19, per ricordare tutti i cittadini che hanno perso la vita nel corso di questa emergenza e per rivendicare la tutela dei lavoratori.

“Noi continueremo a fare quello che abbiamo sempre fatto dal principio di questa emergenza – continua il comunicato – ma chiediamo ad alta voce che le Istituzioni si impegnino per garantirci le migliori condizioni operative: dispositivi di Protezione Individuale (DPI) idonei e sufficienti, screening di tutto il personale sanitario e socio-sanitario, estensione dell’indennità di malattie infettive a tutti, aumento degli organici e superamento della logica del minutaggio, commissione parlamentare di inchiesta per far giustizia a quelli di noi che hanno perso la vita senza avere colpe.”

Cosa vuol dire essere malati di COVID-19

I primi sintomi, il ricovero in ospedale e poi il processo di guarigione, spesso complicato e incerto.

La sera del 10 marzo Edoardo, 39 anni, ha cominciato ad avere qualche linea di febbre e leggeri giramenti di testa. Quel giorno era stato all’ospedale Buzzi di Milano per assistere alla nascita di sua figlia. La mattina dopo, con la febbre a 38 e mezzo, una sensazione di compressione del torace e difficoltà a respirare bene, Edoardo ha chiamato l’ospedale. È stato mandato all’ospedale Sacco di Milano per fare il tampone al coronavirus: positivo.

Il 29 febbraio Mario (nome di fantasia), 69 anni, è andato al lavoro anche se si sentiva poco bene, con una forte sensazione di spossatezza. La mattina dopo si è svegliato con febbre, tosse e dolori in tutto il corpo: ha pensato subito al coronavirus, perché aveva fatto il vaccino anti-influenzale, e si è preoccupato perché aveva avuto una polmonite seria diciassette anni fa. Dopo aver fatto una radiografia ai polmoni, passato qualche giorno, è andato al pronto soccorso a Crema, dove gli hanno fatto il tampone: positivo.

La sera del 24 febbraio, dopo una giornata di lavoro, Marco (nome di fantasia), 54 anni, ha cominciato ad avere la febbre alta. È rimasto a casa dieci giorni con la febbre, prendendo paracetamolo e poi antibiotici, fino alle prime grosse difficoltà respiratorie. È andato la prima volta al pronto soccorso di Legnano (Milano) il 3 marzo, e poi di nuovo il 5 marzo. La seconda volta lo hanno portato in reparto di semi-intensiva, gli hanno messo la maschera per respirare e gli hanno fatto il tampone: positivo.

Edoardo, Marco e Mario sono solo tre delle decine di migliaia di persone che in Italia nell’ultimo mese hanno sviluppato i sintomi della COVID-19, la malattia provocata dal nuovo coronavirus: hanno avuto febbre e difficoltà respiratorie, sono state ricoverate in ospedale e poi sono state dimesse. Insieme a diversi altri malati di COVID-19, hanno raccontato al Post le loro storie: lo sviluppo dei primi sintomi, il difficile ricovero in ospedale e il lento processo di guarigione, che in alcuni casi si sta dimostrando clinicamente ed emotivamente piuttosto complicato.


Spiegare cosa significhi avere la COVID-19 a chi non l’ha avuta è piuttosto complesso. È una malattia che assomiglia poco a quelle che siamo abituati a conoscere, ed è diversa anche dalla normale polmonite batterica.

Inizia con lo sviluppo di alcuni sintomi particolari – generalmente dolori alle articolazioni, febbre e tosse – ma non ci sono evoluzioni standard: alcune persone mostrano fino dai primi giorni febbre alta, sopra i 38,5 °C, altri qualche linea; alcuni hanno subito difficoltà a respirare, altri hanno crolli respiratori dopo giorni; alcuni sentono dolori al torace, mancanza di gusto e olfatto, perdita dell’appetito, quasi tutti una intensa stanchezza.

La grande maggioranza dei malati di COVID-19 sviluppa sintomi lievi, che passano da soli o che possono essere tenuti sotto controllo in isolamento domiciliare, ma non sempre è così: in alcuni casi è necessario un ricovero in ospedale, e nelle aree più colpite non tutte le persone che ne avrebbero bisogno ricevono tempestivamente il trattamento adeguato.

Quasi tutti i malati con cui ha parlato il Post hanno raccontato di avere avuto grandi difficoltà a ottenere una diagnosi certa di COVID-19 prima di andare in ospedale: sia perché in alcune regioni, come la Lombardia, i tamponi vengono fatti solo alle persone in condizioni così gravi da dover essere ricoverate, sia per la varietà dei sintomi mostrati e la scarsa conoscenza che si continua ad avere dell’evoluzione della malattia. I malati più gravi di COVID-19 sviluppano infatti polmoniti interstiziali bilaterali (che interessano entrambi i polmoni), che peggiorano molto in fretta e creano complicanze difficili da trattare, hanno raccontato diversi medici anestesisti che lavorano in alcuni degli ospedali più colpiti.

Michele Marzocchi, medico di famiglia che riceve a Milano, ha definito le polmoniti date dalla COVID-19 «più subdole» rispetto a quelle batteriche, che provocano un numero maggiore di sintomi visibili.

Marzocchi ha raccontato per esempio di avere auscultato i polmoni di un paziente che mostrava sintomi di COVID-19, ma che all’esame medico risultava respirare bene e i cui polmoni sembravano perfetti. Tre giorni dopo, durante la notte, lo stesso paziente ha avuto un crollo respiratorio, peggiorando rapidamente. «Subdola» è lo stesso termine usato da Mario, paziente 69enne di Crema con un’esperienza precedente di polmonite batterica: ha raccontato di avere avuto la febbre alta per giorni ma mai superiore a 39 °C, e sempre accompagnata da sintomi non facili da interpretare, come una intensa stanchezza ed estrema fatica anche solo a spostarsi da una parte all’altra della casa.

«Una polmonite così non l’ho mai vista prima, è una patologia che conosciamo veramente poco», ha detto Angelo Vavassori, 53 anni, che di lavoro fa l’anestesista rianimatore all’ospedale di Bergamo e che ha sviluppato la COVID-19 dopo essere entrato in contatto con pazienti positivi.

Le difficoltà a diagnosticare la COVID-19, e la scarsa conoscenza del comportamento della malattia, hanno fatto sì che in molti casi persone con sintomi siano state lasciate a casa più tempo del dovuto, rischiando di non avere assistenza medica adeguata in caso di improvviso peggioramento respiratorio.

Gabriele (nome di fantasia), 54 anni, di Crema, ha iniziato a sviluppare i primi sintomi il 28 febbraio, tra cui febbre alta e perdita di gusto e olfatto. Per oltre una settimana, nonostante diverse telefonate al medico di famiglia e ai numeri di emergenza messi a disposizione dalle autorità sanitarie, non è riuscito a ottenere niente di più che l’indicazione di prendere farmaci per tenere sotto controllo la febbre. Otto giorni dopo, grazie a contatti familiari e preoccupato per i molti racconti su conoscenti finiti in ospedale a seguito di improvvisi peggioramenti, Gabriele è riuscito a farsi fare una radiografia, che ha mostrato una situazione ai polmoni già compromessa. È stato immediatamente ricoverato: prima gli è stata applicata la maschera per l’ossigeno, poi, dopo un rapido peggioramento delle sue condizioni, gli è stato messo il casco CPAP.

«Non so come sarebbe finita se avessi avuto il crollo a casa invece che in ospedale: forse ora non sarei qui», ha raccontato Gabriele, che nel frattempo è stato dimesso ma che è ancora in fase di guarigione.


Per alcuni malati di COVID-19 sentiti dal Post, l’esperienza in ospedale è stata complicata, soprattutto nelle aree più colpite dall’epidemia, come le province di Bergamo e Cremona.

Mario e Gabriele, entrambi ricoverati all’ospedale di Crema e arrivati in pronto soccorso con difficoltà respiratorie acute, hanno dovuto aspettare molte ore prima di essere trasferiti in uno dei reparti dell’ospedale riconvertiti per assistere i pazienti con la COVID-19. Entrambi hanno raccontato di avere trascorso la notte su una barella nel corridoio del pronto soccorso, con una mascherina per l’ossigeno, in attesa del risultato del tampone. «C’erano molte persone, molte barelle una a fianco all’altra. C’era molta gente che aveva paura», ha raccontato Gabriele: paura di non sapere cosa sarebbe successo, e di non riuscire a respirare.

«Ti manca l’aria nei polmoni», ha raccontato Marco, 54enne ricoverato all’ospedale di Legnano. «È una cosa che parte dal basso. È come soffocare, non hai nemmeno la forza di parlare». «Potevo solo respirare per rimanere vivo», ha detto Mario: «Non avevo la forza di fare niente. Durante i primi giorni di ricovero, ho detto ai miei figli di dire a tutti di non chiamarmi. Non riuscivo a parlare».

L’esperienza del ricovero in un reparto destinato ai malati di COVID-19 è molto diversa a seconda della gravità del paziente, e della situazione di stress in cui si trova l’ospedale. Molte persone ricoverate raccontano di come sia difficile rimanere per giorni in un letto senza poter parlare con nessuno e senza poter guardare in faccia medici e infermieri, tutti coperti da mascherine e visiere e a volte riconoscibili solo dal nome scritto a mano sul sovracamice. Può essere disorientante e può aumentare il senso di solitudine e incertezza, già molto intenso per la mancanza di contatti con amici e familiari, che non possono per nessuna ragione entrare nei reparti destinati ai pazienti con il coronavirus.

Anche il personale sanitario si è dovuto adattare alla nuova situazione, soprattutto nelle prime fasi dell’epidemia, per le difficoltà di non conoscere bene la malattia e la paura di venire contagiati, e magari rischiare di contagiare i propri familiari una volta finito il turno di lavoro. Edoardo, 39enne ricoverato a Milano, ha raccontato che a un certo punto è stato visitato da due medici: «uno si vedeva che era in controllo, sapeva quello che faceva, l’altro era un cardiologo di 55 anni che era stato messo lì per dare una mano con i pazienti positivi». «Quando mi ha auscultato, il cardiologo stava piegato in avanti, cercando di starmi il più lontano possibile. Aveva paura di essere contagiato, era terrorizzato», ha detto.

Una delle esperienze più difficili da affrontare – se si esclude l’intubazione, per la quale però il paziente viene tenuto addormentato – è quella del casco CPAP, che viene applicato ai pazienti già abbastanza gravi e che all’inizio provoca una forte sensazione di soffocamento.

«Il casco è devastante da un punto di vista mentale», ha raccontato Vavassori, anestesista di Bergamo, «soprattutto per chi come me soffre di claustrofobia lieve e si sente quasi soffocare anche a mettersi una cravatta». All’interno del casco c’è un flusso costante di ossigeno che si può modulare a seconda delle esigenze del paziente. Il problema è che all’interno si crea un ambiente umido e caldo, con un «rumore assordante» che amplifica ancora di più la sensazione di non riuscire a respirare. «In questi casi è indispensabile la sedazione, che toglie la parte dell’ansia e rende più naturale per il paziente farsi aiutare dal casco per la respirazione».

Vavassori, anche lui già dimesso dall’ospedale e in via di guarigione, ha raccontato la paura che ha sentito dopo avere avuto un peggioramento respiratorio in casa, e avendo avuto a che fare nei giorni precedenti con pazienti gravi malati di COVID-19 ricoverati in terapia intensiva a Bergamo. «Ho pensato: qui si mette male. Ho salutato i miei figli come se fosse l’ultima volta. Due di loro hanno capito che qualcosa non andava, si sono messi a piangere».

Per i pazienti malati di COVID-19 e ricoverati, essere dimessi dall’ospedale non significa essere “guariti”: significa spesso essere ancora malati ma stare sufficientemente bene da poter rimanere in isolamento domiciliare per il tempo necessario alla completa ripresa e alla scomparsa del virus dall’organismo. Anche questa fase, però, è piuttosto complicata e incerta.

L’ospedale si deve assicurare che il paziente abbia la possibilità di rispettare alcune precise regole di isolamento domiciliare. Per tornare a casa propria, il paziente deve assicurare di vivere da solo, o di poter disporre di un bagno privato e di una stanza in cui rimanere isolato, per ridurre al minimo il rischio di contagiare i propri conviventi. Se non ha questa possibilità, diventa tutto più complicato. In alcune città, per esempio Bergamo, il comune in collaborazione con l’ATS locale ha messo a disposizione diverse stanze in strutture solitamente adibite ad altro, ad esempio gli alberghi. Ma non c’è posto per tutti, e in altre città progetti di questo tipo sono partiti in ritardo o non sono mai partiti.

Edoardo, che non ha avuto la possibilità di fare l’isolamento domiciliare né a casa propria né in una struttura messa a disposizione del comune di Milano (che ha aperto i primi posti letto in un hotel la scorsa settimana), è stato costretto a trovare in fretta un appartamento da affittare, a spese proprie. Lo stesso hanno dovuto fare molte altre persone che non avevano gli spazi adeguati in casa per l’isolamento domiciliare, e che sono state costrette a trovare soluzioni alternative per poter essere dimesse dall’ospedale.

Alla difficoltà di trovare una sistemazione si aggiungono diversi altri problemi, legati sia alle scarse conoscenze che si hanno sul processo di guarigione dalla COVID-19, sia alle complicazioni nel fare e ottenere due risultati negativi ai tamponi di controllo sulla presenza del virus nell’organismo.

Alcuni pazienti dimessi dall’ospedale, soprattutto quelli che avevano mostrato sintomi più gravi, hanno continuato ad avere per settimane difficoltà respiratorie, qualche linea di febbre e una forte sensazione di spossatezza. «È un processo di guarigione lentissimo», ha detto Vavassori, sottolineando come la scarsa conoscenza della malattia implichi anche una scarsa conoscenza del processo di guarigione. Questa incertezza è vissuta con preoccupazione da molti, soprattutto da quelle persone costrette a fare l’isolamento domiciliare da sole e senza particolari attenzioni dalle autorità sanitarie locali.

Diversi pazienti e medici di famiglia sentiti dal Post sostengono che bisognerebbe dare alle persone in isolamento domiciliare i saturimetri, strumenti che servono a misurare la saturazione dell’ossigeno nel sangue, che però da un po’ di tempo sono praticamente introvabili. Averli a disposizione permetterebbe alle persone a casa di tenersi continuamente controllato il valore dell’ossigeno, agendo per tempo prima dell’insorgenza di problemi respiratori seri.

Anche per chi non sviluppa particolari problemi dopo le dimissioni dall’ospedale, essere dichiarati “guariti” non sembra essere così facile.

Nelle ultime settimane in molte ATS c’è stata parecchia confusione sulle indicazioni da dare alle persone che dovevano sottoporsi ai due tamponi di controllo, che devono essere fatti a 24 ore di distanza uno dall’altro. A un paziente dimesso da un ospedale di Milano è stato detto che i suoi tamponi sarebbero stati rimandati per la troppa gente in attesa e per l’impossibilità dei laboratori di processarli tutti. L’indicazione è andare direttamente in ospedale o in un centro apposito a fare il test, spostandosi con i mezzi propri, nonostante la possibile positività al coronavirus, usando mascherina e guanti.

In diversi casi di cui è venuto a sapere il Post, i tamponi fatti anche dopo un mese dalle dimissioni dell’ospedale sono risultati positivi. È troppo presto per tirare conclusioni, soprattutto perché si conosce ancora troppo poco dell’attuale coronavirus, ma questo potrebbe significare un più lungo processo di guarigione per alcuni malati di COVID-19.

di Elena Zacchetti