Cosa rende così contagioso il coronavirus

I ricercatori stanno studiando il meccanismo con cui si lega alle cellule del nostro organismo per replicarsi, in modo da sviluppare farmaci per bloccarlo.

Dall’inizio dell’epidemia da coronavirus a gennaio, nel mondo sono stati segnalati oltre 120mila casi positivi e più di 4mila morti: 80mila solo in Cina, dove è iniziata la crisi sanitaria, e più di 10mila in Italia. I motivi del progressivo aumento dei casi è legato sia alle strategie adottate dai singoli paesi per affrontare il contagio – in alcuni casi con soluzioni carenti o che hanno inizialmente sottostimato il rischio – sia alle caratteristiche stesse del coronavirus, sulle quali i ricercatori stanno compiendo studi e analisi per comprendere come faccia a diffondersi facilmente.

L’attuale coronavirus è mediamente contagioso e lo è di più rispetto a quello che causa la SARS, un’altra sindrome respiratoria grave, e con il quale sembra essere imparentato. In un paio di mesi ha infettato dieci volte il numero di persone che avevano contratto la SARS. Capire i meccanismi con cui si lega alle cellule per replicarsi potrebbe essere la chiave per produrre vaccini e farmaci, essenziali per ridurre la letalità della malattia (COVID-19) causata dal coronavirus.

Come gli altri virus, anche i coronavirus sfruttano per replicarsi le cellule degli organismi che infettano: sulla superficie delle capsule che contengono il loro materiale genetico, hanno minuscole punte che ricordano quelle di una corona (da qui il nome “coronavirus”). Le punte sono costituite da una proteina che si lega alla membrana cellulare, sfruttando un processo che viene attivato da un enzima della cellula (in pratica fa da portinaio). Sfruttando questo meccanismo, il coronavirus può avere accesso alla cellula, iniettarvi il suo codice genetico (RNA) e sfruttare poi gli organuli cellulari per replicarsi. Le copie prodotte lasciano poi la cellula, andando a infettarne altre.

Diversi gruppi di ricerca nelle ultime settimane hanno notato che l’attuale coronavirus ha una particolare proteina sulle sue punte, diversa da quella che si trova solitamente sugli altri coronavirus. L’ipotesi è che questa proteina abbia un punto di attivazione adatto a reagire con la furina, un enzima della cellula che ha proprio il compito di rimuovere alcuni pezzetti delle proteine per renderle attive (spesso le proteine sono inattive quando vengono prodotte dalla cellula e diventano attive solo dopo l’intervento di un enzima che elimina una loro sezione).

La furina è presente nelle cellule di numerosi tessuti del nostro organismo, come i polmoni (dove il coronavirus può causare molti danni, come dimostrano i casi gravi di polmoniti dovute alla COVID-19), il fegato e parte dell’intestino. Secondo Li Hua, ricercatore presso l’Università di Scienze e Tecnologie Huazhong di Wuhan – la città dove è iniziata l’epidemia – questo potrebbe spiegare perché sono stati segnalati casi di pazienti con sintomi gravi al fegato oltre che ai polmoni. Insieme ai suoi colleghi, Li ha realizzato un’analisi genetica del coronavirus, notando che altri coronavirus parenti stretti dell’attuale non sfruttano la furina.

Gary Whittaker, virologo presso la Cornell University (Stati Uniti), ha spiegato al sito di Nature che l’attivazione tramite la furina: «Rende il coronavirus differente da quello della SARS in termini di meccanismo di entrata nelle cellule, e potrebbe influenzare la stabilità del virus e la sua capacità di trasmettersi». Insieme ai colleghi, Whittaker ha pubblicato a febbraio un’analisi strutturale della proteina sulle punte dell’attuale coronavirus.

Il punto di attivazione è stato oggetto di diversi altri studi nelle ultime settimane, diventando uno dei principali indiziati per provare a spiegare la capacità del coronavirus di diffondersi facilmente tra la popolazione, e di replicarsi in maniera così efficiente nelle persone infette. La furina viene del resto sfruttata anche nei meccanismi di replicazione di altri virus, come alcuni di quelli influenzali (che non sono però coronavirus).

Le nuove ricerche hanno aperto un confronto acceso tra i virologi, con alcuni che hanno invitato a non arrivare a conclusioni azzardate, ricordando che per ora gli studi sono preliminari e richiederanno ulteriori approfondimenti. Per avere informazioni più chiare saranno necessari test di laboratorio su campioni cellulari e su cavie, in modo da verificare meglio il meccanismo di attivazione che apre al virus la possibilità di entrare nelle cellule. Whittaker e colleghi stanno per esempio sperimentando un sistema per modificare il punto di attivazione, per verificare se in questo modo la proteina sulla punta del coronavirus riesca o meno a mantenere la propria funzione.

Li sta invece lavorando su alcune molecole da impiegare per bloccare la furina, in modo da rompere il legame con il coronavirus. Nel suo caso gli studi sono rallentati dal fatto di trovarsi a Wuhan, città che solo ora dopo un paio di mesi di isolamento inizia lentamente a tornare alla normalità

Altri ricercatori stanno intanto studiando gli altri meccanismi che il coronavirus sfrutta per legarsi alle membrane cellulari, eludendo i sistemi di sicurezza delle cellule per evitare di essere contaminate. La loro identificazione potrebbe consentire di sviluppare farmaci per impedire al coronavirus di legarsi alle membrane cellulari e di inserire all’interno delle cellule il suo RNA.

Come si definisce “guarito” un paziente con coronavirus

È un’informazione che viene messa molto in evidenza dalla Protezione Civile, ma non è così significativa per comprendere l’epidemia.

Oltre a citare i nuovi casi positivi da coronavirus, ogni giorno la Protezione Civile comunica il numero delle persone “guarite” dalla COVID-19, la malattia causata dal virus SARS-CoV-2. Secondo i dati più recenti, riferiti al pomeriggio di martedì 3 marzo, i guariti in Italia finora sono stati 160 su 2.502 persone risultate positive ai test per la ricerca del coronavirus. La definizione “guariti” però è piuttosto generica e semplifica valutazioni cliniche un poco più complicate, che sono però utili per farsi meglio l’idea di che cosa voglia dire guarire dal coronavirus.

Guarire da un virus
Definire con esattezza la guarigione da un virus è complicato: quando ci si ammala, si manifestano sintomi che tendono a diventare più lievi e poi a scomparire man mano che il sistema immunitario riesce a contrastare l’infezione. La febbre, per esempio, è una reazione dell’organismo per impedire all’agente che ha causato l’infezione di replicarsi, causando ulteriori danni. La scomparsa dei sintomi per qualche giorno indica che è avvenuta la guarigione e che il sistema immunitario ha imparato a riconoscere una nuova minaccia, serbandone il ricordo per evitare di subire un nuovo attacco in futuro (abbiamo semplificato molto, e in alcuni casi la memoria del sistema immunitario non si rivela così efficace).

Guarire da COVID-19
La COVID-19, la malattia causata dal coronavirus, è nota da un paio di mesi e ci sono quindi ancora informazioni limitate sia dal punto di vista scientifico sia da quello clinico. In Italia, il Gruppo di lavoro permanente del Consiglio Superiore di Sanità ha diffuso a fine febbraio un documento nel quale definisce i criteri per poter definire “guarita” una persona.

Clinicamente guarito
Un paziente viene definito “clinicamente guarito” da COVID-19 quando non mostra più i sintomi della malattia, che comprendono: febbre, mal di gola, difficoltà respiratorie e nei casi più gravi polmonite con insufficienza respiratoria.
La definizione “clinicamente guarito” non esclude che a un test per rilevare la presenza del coronavirus, tramite un tampone, il paziente risulti ancora positivo.

Guarito
Un paziente viene definito “guarito” quando non ha più i sintomi della COVID-19 e risulta negativo a due test consecutivi, eseguiti a distanza di 24 ore uno dall’altro, per la ricerca del coronavirus.
Il Gruppo di lavoro permanente consiglia inoltre di ripetere il test, almeno dopo una settimana, per i pazienti che risultano positivi e che però non mostrano più sintomi.

Eliminazione del virus
C’è poi un’ulteriore definizione che viene usata per indicare le persone in cui il codice genetico (RNA) del coronavirus non è più rilevabile. Questa eliminazione può riguardare sia gli individui che hanno mostrato sintomi della COVID-19, sia persone risultate positive ma prive di sintomi. L’eliminazione viene di solito accompagnata dalla presenza di anticorpi prodotti dall’organismo per contrastare specificamente l’attuale coronavirus (SARS-CoV-2).

Per definire “scomparso l’RNA”, e quindi eliminato il virus, due test molecolari effettuati a distanza di 24 ore uno dall’altro devono dare esito negativo.

I test possono dare falsi positivi e negativi, anche se non sappiamo ancora in che misura e con quale frequenza: per questo motivo è importante che ci sia un successivo controllo da parte dell’Istituto Superiore di Sanità.

Sulla base delle informazioni disponibili finora in letteratura scientifica, e sulla base dell’esperienza clinica, il Gruppo di lavoro ritiene che:

Due test molecolari consecutivi per il SARS-CoV-2, con esito negativo, accompagnati nei pazienti sintomatici dalla scomparsa di segni e sintomi di malattia, siano indicativi di “clearance” [“eliminazione”, ndr] virale dall’organismo. L’eventuale comparsa di anticorpi specifici rinforza la nozione di eliminazione del virus e di guarigione clinica e virologica.

Incubazione e test
Il coronavirus ha un tempo di incubazione medio intorno alla settimana, con un massimo di 14 giorni: significa che dal momento in cui si è contratto il virus al momento in cui si sviluppano i sintomi possono passare fino a due settimane. Una persona che non mostra ancora sintomi può quindi risultare ugualmente positiva ai test perché ha comunque già il coronavirus: in questo caso, viene consigliato di ripetere il test non prima di 14 giorni dal precedente, in modo da verificare l’effettiva negativizzazione (parola complicata per dire che il paziente è diventato negativo al test).

È un dato utile?
Diversi esperti hanno fatto notare che il dato dei guariti non è così rilevante per una malattia come la COVID-19, dove abbiamo ormai chiare evidenze cliniche sul fatto che la maggior parte degli infetti guarisce. Il capo della Protezione Civile, Angelo Borrelli, sembra essere comunque molto interessato a questo dato per ridurre le ansie nell’opinione pubblica: è quasi sempre la prima informazione che fornisce durante le conferenze stampa.

“Il coronavirus è arrivato all’uomo tra il 20 e il 25 novembre”: la scoperta italiana

L’Università Campus Bio-medico di Roma ha ricostruito la mutazione genetica che ha trasformato il coronavirus degli animali in un virus umano.

Ricostruita la mutazione genetica che ha trasformato il coronavirus degli animali in un virus umano, adattato cioè all’organismo degli esseri umani e capace di colpirlo. Il risultato, accessibile online e in via di pubblicazione sul Journal of Clinical Virology, è italiano e si deve al gruppo di statistica medica ed Epidemiologia molecolare dell’Università Campus Bio-medico di Roma diretto da Massimo Ciccozzi; il primo autore è lo studente Domenico Benvenuto.

Studiando le sequenze genetiche del virus in circolazione in Cina i ricercatori ne hanno ricostruito le mutazioni fino a scoprire quella che è stata decisiva per il cosiddetto salto di specie, ossia il cambiamento che ha permesso a un virus tipico degli animali, in particolare dei pipistrelli, di diventare capace di aggredire l’uomo. “E’ stato un cambiamento decisivo, una mutazione molto particolare avvenuta fra il 20 e il 25 novembre”, ha detto Ciccozzi all’ANSA.

Come tutti i virus, anche il coronavirus SarsCoV2 “muta in continuazione e cerca di cambiare aspetto per essere in equilibrio con il sistema immunitario ospite”, ha proseguito l’esperto. Dopo quella di due proteine strutturali, la terza mutazione del coronavirus è stata quella decisiva: a trasformarsi è stata la proteine di superficie chiamata ‘spike’ (punta, spina), che il virus utilizza per aggredire le cellule e invaderle per moltiplicarsi.

“E’ stata la mutazione della proteina spike che ha permesso al virus di fare il salto di specie. E’ una proteina abbastanza conservata nella storia evolutiva del virus – ha detto ancora Ciccozzi – e questa mutazione le ha permesso di fare il passaggio dall’animale all’uomo, innescando l’epidemia umana”.

Articolo originale: https://www.huffingtonpost.it/entry/il-coronavirus-e-arrivato-alluomo-tra-il-20-e-il-25-novembre-la-scoperta-italiana_it_5e5bcd28c5b6010221128b1d?ncid=other_trending_qeesnbnu0l8&utm_campaign=trending

C’è un primo vaccino sperimentale contro il coronavirus

Prodotto in pochissimo tempo, entro fine aprile sarà sperimentato sui primi esseri umani: ma ci sono molte incertezze sulla sua efficacia.

L’azienda farmaceutica statunitense Moderna ha terminato lo sviluppo di un primo vaccino sperimentale contro il coronavirus (SARS-CoV-2), a meno di tre mesi di distanza dalla scoperta in Cina delle prime polmoniti causate dalla malattia (COVID-19). La velocità con cui è stato ottenuto questo risultato è importante e con pochi precedenti, ma questo non implica che il nuovo vaccino sia sicuro ed efficace: per scoprirlo saranno necessari mesi di sperimentazioni, dagli esiti piuttosto incerti.

Moderna esiste da poco meno di dieci anni, ha la sua sede principale a Cambridge (Massachusetts, Stati Uniti) ed è specializzata nella ricerca e nello sviluppo di farmaci basati sull’RNA messaggero (mRNA), la molecola che si occupa di codificare e portare le istruzioni contenute nel DNA per produrre le proteine. Semplificando molto, Moderna ha l’obiettivo di realizzare forme sintetiche di mRNA, quindi create in laboratorio, che contengano istruzioni per produrre proteine che aiutino l’organismo a guarire.

Nei laboratori di Moderna sono impiegate circa 800 persone, che da anni lavorano per sviluppare farmaci e vaccini per trattare malattie come il cancro, patologie cardiache e infezioni dovute a virus e batteri. Le notizie sulla rapida diffusione del coronavirus in Cina e poi in diversi altri paesi del mondo, compresa l’Italia, hanno indotto i responsabili dell’azienda a interessarsi al problema e a valutare la produzione di un vaccino sperimentale.

Come racconta il Wall Street Journal, tutto è iniziato intorno al 10 gennaio, quando i ricercatori cinesi sono riusciti a riprodurre la sequenza genetica del coronavirus, condividendo la notizia e i dati con il resto della comunità scientifica in tutto il mondo. Tra i tanti che l’hanno analizzata, c’erano anche Moderna e il National Institute of Allergy and Infectious Disease (NIAID) di Bethesda (Maryland), centro di ricerca pubblico statunitense che si occupa dello studio delle malattie infettive.

Dopo una prima analisi, i ricercatori di Moderna hanno identificato una sezione della sequenza genetica del coronavirus promettente per indurre una reazione immunitaria nell’organismo che la riceve, senza che però si sviluppino i sintomi della malattia (che in alcuni casi possono essere gravi e letali). Moderna e NIAID si sono messi d’accordo: la prima avrebbe provveduto a sviluppare un vaccino sperimentale, il secondo a testarlo per verificarne sicurezza ed efficacia.

La ricerca e la produzione hanno coinvolto un centinaio di impiegati di Moderna nei laboratori di Norwood, vicino alla sede di Cambridge. Hanno lavorato per settimane senza sosta, con turni nei fine settimana e di notte per fare il prima possibile. Il 7 febbraio, a poco meno di un mese dalla produzione dei primi profili genetici del coronavirus, il laboratorio aveva già completato la produzione di 500 fiale del vaccino sperimentale. Nelle due settimane successive, i ricercatori hanno analizzato il risultato e verificato sterilità e sicurezza di ogni fiala.

Il lotto è stato consegnato a NIAID questa settimana e il direttore dell’Istituto, Anthony Fauci, stima che il primo test clinico con 20-25 volontari sani possa essere avviato entro la fine di aprile, una volta ultimati ulteriori controlli sul vaccino. Il primo test su esseri umani comporterà due somministrazioni per volontario, e avrà lo scopo di verificare la sicurezza del prodotto e la sua capacità di indurre una risposta immunitaria. Quest’ultima dovrà poi essere valutata per verificare che sia efficace contro il coronavirus. I risultati di questa prima fase di test dovrebbero essere pronti tra i mesi di luglio e agosto.

Se le prime verifiche saranno positive, si procederà poi con un secondo test che coinvolgerà diverse centinaia di persone, probabilmente in aree in cui il coronavirus è ormai particolarmente diffuso, come la Cina. Questa seconda fase richiederà tra i sei e gli otto mesi per essere completata e – se sarà positiva – condurrà alle ultime verifiche, effettuate dalle autorità per la sicurezza dei farmaci, in vista della diffusione su larga scala del vaccino. Salvo accelerazioni nelle procedure per ottenere i permessi, l’intero processo potrebbe richiedere circa un anno.

Il successo del nuovo vaccino sperimentale non è per nulla scontato e ne sono consapevoli gli stessi ricercatori di Moderna. Per quanto siano fiduciosi, potrebbero avere scelto una sezione della sequenza genetica poco adatta allo scopo di causare una risposta immunitaria, mancando quindi l’obiettivo di indurre l’organismo a produrre i giusti anticorpi e a serbarne memoria nel caso di un’infezione da coronavirus. È comunque un rischio che vale la pena assumersi, considerata la velocità con cui si sta diffondendo la COVID-19 e gli effetti che potrebbe avere sulle fasce più deboli della popolazione (anziani e individui in condizioni di salute compromesse).

La rapidità con cui Moderna ha realizzato un primo vaccino sperimentale dimostra come le innovazioni nel settore abbiano permesso di accorciare i tempi per questo tipo di ricerche. Nel caso della SARS, per esempio, la ricerca di un vaccino richiese molto più tempo e fu poi sostanzialmente abbandonata, dopo che fu possibile contenere l’epidemia. Con il coronavirus le cose sembrano andare diversamente: i casi verificati di contagio hanno interessato ormai quasi 80mila persone e, secondo gli epidemiologi, il numero di nuovi contagiati continuerà ad aumentare significativamente.

Secondo Fauci, la diffusione del coronavirus potrebbe ridursi durante la stagione calda, per poi tornare a essere rilevante il prossimo inverno. Al momento non si esclude inoltre che la COVID-19 possa diventare una malattia stagionale, quindi ricorrente come avviene con l’influenza. In questo caso un vaccino potrebbe essere molto utile per tutelare gli individui più a rischio, proprio come si fa con il vaccino influenzale.

Moderna non è comunque l’unica azienda al lavoro per produrre un vaccino contro il coronavirus. Da settimane ci lavorano diverse altre società farmaceutiche, come Inovio Pharmaceuticals e Johnson & Johnson. Man mano che l’epidemia progredisce, inoltre, scienziati e centri di ricerca ottengono nuovi dati utili per capire caratteristiche e comportamento del coronavirus.

Mentre si cerca di contenere l’infezione, in modo da ridurre il rischio di nuovi contagi da COVID-19, le autorità sanitarie a cominciare dall’OMS auspicano che entro un anno possa essere disponibile un primo vaccino, che aiuterebbe molto a ridurre la letalità del coronavirus. Anche per questo motivo, ogni tentativo è importante, per quanto porti con sé molte incertezze come nel caso del nuovo vaccino sperimentale di Moderna.

Quali sono i sintomi del nuovo coronavirus

Le cose da sapere e qualche consiglio senza allarmismi su cosa fare se non vi sentite bene e avete dei dubbi: il primo è consultare un medico.

Le notizie dei contagi nella zona di Codogno, in provincia di Lodi (Lombardia), hanno portato nuovo interesse e qualche apprensione per la crisi sanitaria legata al nuovo coronavirus, iniziata alla fine del 2019 in Cina, dove continua a concentrarsi la maggior parte dei casi e delle morti. Il ministero della Salute e le autorità sanitarie lombarde hanno avviato un piano per valutare l’estensione del problema e ridurre il rischio di nuovi contagi. Hanno inoltre chiesto la collaborazione di tutti, invitando le persone entrate in contatto con gli infetti a rivolgersi alle strutture sanitarie, in modo da valutare le loro condizioni e condurre test per verificare l’eventuale presenza del virus.

COVID-19
La malattia causata dal nuovo coronavirus cinese (SARS-CoV-2) è stata chiamata COVID-19 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). “CO” sta per “corona”, “VI” per virus e “D” per “disease” (“malattia” in inglese) e “19” serve per indicare l’anno di identificazione.

Il virus SARS-CoV-2 causa la COVID-19. Di conseguenza, possiamo anche dire che il virus della COVID-19 è il SARS-CoV-2.

Contagio
Il coronavirus si diffonde da persona a persona tramite le piccole gocce che emettiamo con la respirazione, quando tossiamo e quando starnutiamo. Il contagio può essere diretto, per esempio se si è vicini a qualcuno infetto che starnutisce, oppure per via indiretta se il virus è presente su oggetti e superfici.

Come per altre malattie virali, le vie di contagio indiretto possono essere molteplici, ma seguono uno schema piuttosto simile: l’infetto starnutisce o tossisce portandosi una mano alla bocca e poi tocca qualcosa che ha intorno, come la maniglia di una porta; una persona non infetta tocca la maniglia della porta e poi si tocca il viso, portando inconsapevolmente il virus verso le mucose della bocca e del naso, o ancora verso gli occhi.

Incubazione
Il tempo di incubazione – cioè il periodo che intercorre tra il momento in cui si è entrati in contatto con il virus e quando si manifestano i primi sintomi – non è ancora completamente chiaro. In linea di massima, passano dai 2 ai 14 giorni prima di manifestare i sintomi della COVID-19.

Quando si è contagiosi
Di solito con le malattie si diventa contagiosi quando si iniziano ad avere i primi sintomi, ma ci sono patologie in cui si è contagiosi anche nel periodo di incubazione. Per la COVID-19 c’è il sospetto che il contagio possa avvenire anche da parte di persone con il virus ma ancora senza i segni della malattia: alcuni studi pubblicati nelle ultime settimane ne hanno parlato, ma si attendono conferme.

Un’altra ipotesi è che in alcune persone la COVID-19 causi sintomi molto lievi, tali da mantenere gli individui attivi e inconsapevoli di essere malati: questi continuano quindi ad andare al lavoro e a condurre una normale vita sociale, facendo aumentare il rischio di nuovi contagi.

Sintomi
Come abbiamo visto la COVID-19 può essere asintomatica oppure può comportare sintomi simili a quelli di un’influenza: febbre, tosse e difficoltà a respirare; naso che cola e mal di gola sono meno frequenti. Nella maggior parte dei casi il sistema immunitario riesce a contrastare il nuovo coronavirus e a fermarne la moltiplicazione, portando a una guarigione dopo un paio di settimane.

Talvolta i sintomi possono peggiorare e la malattia evolve in una polmonite, con complicazioni che possono essere letali. Il rischio di morte è più alto tra le persone che hanno già altri problemi di salute, come diabete o carenze del sistema immunitario, e tra gli anziani.

Mica avrò la COVID-19?
La COVID-19 può essere inizialmente scambiata per un’influenza (e viceversa), quindi è comprensibile che chi sviluppa qualche sintomo in questi giorni si faccia un po’ di domande. Ai primi sintomi è consigliabile restare a casa, ridurre al minimo i contatti con altre persone e valutare l’evolversi della situazione, come si dovrebbe sempre fare quando si prende l’influenza stagionale, per esempio.

Per ogni dubbio o per avere consigli è bene non farsi un’autodiagnosi su Internet, ma sentire un esperto. Una telefonata al proprio medico di famiglia è il primo passo per valutare la situazione e ricevere istruzioni su come gestirla.

Nel caso in cui i sintomi peggiorino rapidamente, è sconsigliato recarsi direttamente in ospedale o al pronto soccorso. Il consiglio è telefonare al 112 e illustrare la situazione, in modo che sia il personale sanitario a decidere come gestire l’eventuale emergenza. In questo modo si riduce anche il rischio di contagiare altre persone al proprio arrivo in ospedale, senza le dovute protezioni.

Il ministero della Salute ha inoltre messo a disposizione il numero 1500 per ricevere informazioni e consigli sul nuovo coronavirus.

C’è da preoccuparsi?
Con la salute naturalmente non si scherza, ma non bisogna nemmeno farsi inquietare troppo dalle notizie che da settimane leggiamo sul nuovo coronavirus. Secondo il rapporto più completo finora diffuso sulla COVID-19, e basato per lo più su quanto sta avvenendo in Cina, in circa l’81 per cento dei casi la malattia comporta sintomi moderati, mettendo a rischio soprattutto le persone più anziane o che avevano già altre condizioni cliniche. Il 13,8 per cento dei casi ha portato a sintomi gravi e meno del 5 per cento dei casi a condizioni critiche.

Prevenzione
Ridurre al minimo i contatti con le persone contagiose riduce il rischio di contrarre la COVID-19. Le buone pratiche igieniche da seguire sono le stesse consigliate per difendersi dall’influenza stagionale e altre malattie contagiose: lavarsi spesso le mani, non toccarsi il viso con le mani sporche, tossire e starnutire nell’incavo del gomito e non nel palmo delle mani, in modo da ridurre il rischio di trasferire per contatto il virus sulle superfici, se si è contagiosi.