Gli ormoni sessuali femminili contro il coronavirus

Saranno utilizzati in due test clinici negli Stati Uniti per valutare se riducano il rischio di morte per gli uomini, visto che sono più a rischio delle donne.

Due ospedali degli Stati Uniti hanno avviato test clinici contro la COVID-19: trattare i pazienti di sesso maschile con ormoni femminili per aiutarli a contrastare il coronavirus. Nei casi più seri, infatti, la malattia ha esiti gravi e può causare la morte soprattutto tra gli uomini. Le cause di questa differenza non sono ancora completamente chiare, ma i medici di un ospedale di New York e di uno di Los Angeles vogliono capire se gli ormoni abbiano un ruolo e in quale misura. Seppur condotti su un numero limitato di pazienti, i due test clinici potrebbero fornire nuovi spunti ed elementi per comprendere meglio le infezioni causate dal virus.

Uno dei due test è stato avviato presso l’ospedale dell’Università Stony Brook di Long Island, nello stato di New York, dove si è iniziato a chiedere ai pazienti di partecipare su base volontaria, con l’obiettivo di raccogliere 110 partecipanti. Il reclutamento avviene nel pronto soccorso, all’arrivo di persone con sintomi che facciano sospettare una COVID-19 (febbre, tosse secca, difficoltà respiratorie) o con una diagnosi di laboratorio già effettuata. L’obiettivo è di selezionare casi con sintomi importanti, ma non tali da rendere necessaria l’intubazione.

Al test clinico possono accedere sia adulti di sesso maschile, sia donne con un’età superiore ai 55 anni, quindi verso la menopausa e con bassi livelli di estrogeni, i principali ormoni sessuali femminili. A metà dei partecipanti sarà fatto indossare un cerotto che diffonde estradiolo, un estrogeno prodotto dalle ovaie e che viene spesso impiegato per ridurre i sintomi dovuti alla menopausa. L’altra metà farà invece da gruppo di controllo, per verificare le differenze cliniche tra chi riceve gli estrogeni e chi no.

Le donne sopra i 55 anni sono comprese nel test per capire meglio quanto incidano i fattori ormonali sulla gravità dei sintomi della COVID-19. Durante la menopausa gli estrogeni sono meno presenti, e questo sembra quindi contraddire in parte l’assunto sul ruolo degli ormoni: se avessero un peso così rilevante, la letalità tra le donne con COVID-19 non dovrebbe differenziarsi sensibilmente da quella degli uomini. Invece anche le donne anziane si mostrano meno soggette agli effetti del coronavirus, una circostanza rilevata in tutti i paesi. In Italia, per esempio, nella fascia di età tra i 70 e i 79 anni il tasso di letalità degli uomini è del 30 per cento circa, contro il 17 per cento delle donne.

(Istituto Superiore di Sanità)

L’altro test clinico è condotto invece presso il Cedars-Sinai Medical Center di Los Angeles ed è stato progettato su una scala più piccola, con 40 partecipanti, tutti di sesso maschile. La sperimentazione è aperta unicamente ai pazienti ricoverati nell’ospedale e con sintomi tra lievi e moderati, senza particolari malattie preesistenti. A 20 di loro saranno somministrate quotidianamente per 5 giorni due dosi di progesterone, altro ormone sessuale, mentre gli altri 20 costituiranno il gruppo di controllo.

Durante il periodo di test, i medici verificheranno le condizioni di salute dei pazienti, rilevando eventuali cambiamenti nei loro sintomi. La scelta del progesterone invece degli estrogeni come nel test a New York è derivata dal fatto che in alcuni studi si è notato un influsso del progesterone sul sistema immunitario e i meccanismi che utilizza per provocare le infiammazioni (che servono per distruggere le cellule infette, ma che in particolari circostanze possono finire fuori controllo e causare seri problemi, come avviene nei pazienti gravi con COVID-19). Il progesterone potrebbe quindi ridurre la risposta immunitaria, rendendo meno gravi le sindromi respiratorie dovute alla malattia.

Da alcune ricerche, gli estrogeni sembrano avere un effetto sulle ACE2, un tipo di proteina presente nella membrana delle cellule di molti tessuti del nostro organismo. L’attuale coronavirus riesce a sfruttare questa proteina per eludere le difese della cellula, riuscendo a iniettarvi all’interno il suo codice genetico (RNA) e a sfruttare i meccanismi cellulari per produrre nuove copie, che infettano poi altre cellule facendo aumentare l’infezione virale. L’ACE2 è regolata diversamente tra soggetti di sesso femminile e maschile. In test condotti su cavie di laboratorio, i ricercatori hanno notato che gli estrogeni possono ridurre la presenza della proteina in tessuti specifici (come quelli dei reni), e quindi lo stesso potrebbe avvenire negli esseri umani.

Non tutti sono comunque convinti dell’approccio seguito dalle due ricerche, considerato che molte pazienti in menopausa si mostrano comunque meno esposte al rischio di sintomi gravi da COVID-19 rispetto agli uomini. Lo stesso ruolo degli ormoni nella regolazione del sistema immunitario non è ancora compreso totalmente, e questo si riflette sulle opportunità di sfruttarne i meccanismi.

Per avere risultati rilevanti dai due studi sarà necessario attendere qualche mese, e non è detto che si possano ottenere evidenze scientifiche utili contro la COVID-19. La somministrazione per un limitato periodo di tempo di ormoni sessuali femminili negli uomini non comporta comunque particolari rischi, quindi i test clinici possono essere condotti senza particolari preoccupazioni, considerata anche la costante assistenza da parte dei medici.

A oggi non esiste una cura contro la COVID-19 e non c’è un vaccino: i trattamenti disponibili sono per lo più orientati a rallentare l’infezione nell’organismo, offrendo più tempo al sistema immunitario per imparare a riconoscere il coronavirus e a sbarazzarsene. Nei casi più gravi la malattia rende necessaria l’intubazione per diversi giorni, con forti stress per i pazienti. I farmaci sperimentati finora hanno l’obiettivo di ridurre l’infiammazione e la replicazione del virus, ma non si mostrano efficaci in tutti i pazienti. Anche per questo motivo si stanno moltiplicando studi e test clinici su altri farmaci, pensati per altre malattie, ma che potrebbero offrire qualche beneficio anche contro la COVID-19. Altre soluzioni sperimentali riguardano l’impiego di trasfusioni di sangue dai convalescenti ai pazienti gravi, per favorire la loro risposta immunitaria.

Cosa fa il coronavirus al nostro corpo

Le ricerche delle ultime settimane mostrano quanto il virus possa essere devastante e pericoloso non solo per i polmoni, ma dal cervello alle dita dei piedi.

Gli sforzi di virologi, epidemiologi, ricercatori e medici per cercare terapie e per sviluppare un vaccino contro l’epidemia da coronavirus (SARS-CoV-2) si traducono nella pubblicazione di migliaia di ricerche scientifiche e rapporti clinici ogni settimana. Il sito di Science, una delle più prestigiose riviste scientifiche al mondo, ha raccolto le osservazioni e le scoperte più rilevanti sulla COVID-19, mostrando quanto l’attuale coronavirus si riveli estremamente aggressivo nel 5 per cento circa dei pazienti, causando sintomi molto gravi. La malattia interessa per lo più i polmoni, ma i ricercatori e i medici hanno notato effetti importanti su buona parte del resto del corpo, dal cervello fino alle dita dei piedi.

Polmoni
Il coronavirus si trasmette per lo più tramite le piccole gocce di saliva che emettiamo parlando o tossendo. La principale via di contagio è attraverso le alte vie respiratorie: gola e naso. Nelle cellule di quest’ultimo, il virus sembra trovarsi particolarmente a proprio agio: le loro membrane cellulari sono ricche di ACE2 (enzima 2 convertitore dell’angiotensina), un recettore che regola che cosa possa o non possa entrare nella cellula. L’ACE2 è piuttosto diffuso nei tessuti cellulari del nostro organismo e questo potrebbe spiegare perché il coronavirus riesca a fare danni diffusi: con le proteine nel suo involucro, inganna l’ACE2 per iniettare il proprio materiale genetico (RNA) nella cellula e sfruttarla per replicarsi migliaia di volte, con nuove copie che infetteranno poi altre cellule.

Man mano che avviene la replicazione, gli individui infetti diventano contagiosi, soprattutto nella prima settimana dal momento dell’infezione. Possono sviluppare sintomi estremamente lievi – anche al punto da non accorgersi di essere malati – oppure febbre, tosse secca, perdita di olfatto e gusto, dolori articolari, mal di testa e mal di gola. Nel caso in cui il loro sistema immunitario non riesca a sbarazzarsi del coronavirus, questo prosegue la sua invasione raggiungendo le parti più profonde del sistema respiratorio: i polmoni.

Le strutture più piccole e delicate del polmone sono gli alveoli, il luogo in cui avviene lo scambio di ossigeno e di anidride carbonica nella circolazione sanguigna. Le cellule del nostro organismo hanno infatti bisogno di ossigeno per vivere e gestire i loro processi, che portano alla produzione di anidride carbonica che deve essere invece eliminata con l’aria che espiriamo. Il sottilissimo strato di cellule che costituisce gli alveoli è ricco di ACE2, e questo favorisce il coronavirus.

Il sistema immunitario reagisce all’infezione con le sue prime risorse attraverso le chemochine, molecole che a loro volta attivano la risposta di altre cellule immunitarie che prendono di mira le cellule infettate dal virus e le distruggono. È una reazione molto violenta e paragonabile all’effetto di un bombardamento a tappeto: dopo il loro passaggio restano cellule morte e fluidi, sui quali possono prodursi batteri (pus). Per il paziente i sintomi di questa battaglia sono quelli tipici della polmonite: febbre, tosse e progressive difficoltà a respirare normalmente.

Molti pazienti riescono a superare questa fase della COVID-19 autonomamente, con l’assunzione di farmaci per tenere sotto controllo alcuni sintomi o con l’aiuto dell’ossigeno per favorire la respirazione. Nei casi più gravi, però, la malattia progredisce e si sviluppa una sindrome da distress respiratorio: i livelli di ossigeno nel sangue diminuiscono sensibilmente e la respirazione diventa sempre più difficile. Nelle TAC e radiografie i polmoni appaiono con opacità, nei punti in cui dovrebbero invece apparire scuri a indicazione della presenza dell’aria. Per i pazienti in queste condizioni si rende necessaria l’intubazione in terapia intensiva. Molti di loro muoiono: gli alveoli si intasano di fluidi, muco, cellule morte e altro materiale e non permettono lo scambio di ossigeno col sangue.

Diversi medici hanno inoltre segnalato che nei pazienti più gravi si sviluppa talvolta una “tempesta di citochine”, cioè una reazione oltre misura del sistema immunitario che si rivela molto più distruttiva nei tessuti polmonari. Alcuni pneumologi non sono così sicuri che il fenomeno sia molto ricorrente e invitano a qualche cautela in più, perché i farmaci che si utilizzano per ridurre queste reazioni fuori misura abbattono la reattività del sistema immunitario, con il rischio che nel frattempo il coronavirus riesca a prosperare e a portare avanti l’infezione.

Cuore e circolazione sanguigna
Nelle ultime settimane è diventato evidente come la COVID-19 interessi diverse altre parti dell’organismo oltre ai polmoni, comportando rischi importanti anche per il cuore. Non è ancora chiaro come il coronavirus colpisca il sistema cardiocircolatorio, ma ormai decine di ricerche e rapporti clinici segnalano danni consistenti piuttosto comuni, tra i pazienti gravi. Uno studio svolto a Wuhan, la città cinese da cui è cominciata la pandemia, ha indicato che circa un quinto di 416 pazienti esaminati con COVID-19 aveva riportato danni cardiaci. Un’altra ricerca, svolta negli ospedali della stessa città, ha segnalato la presenza di irregolarità nel battito cardiaco (aritmie) nel 44 per cento di 138 pazienti ricoverati.

Altri medici e ricercatori hanno segnalato la presenza di coaguli di sangue, che si formano nei vasi sanguigni a causa dell’infiammazione. Il nostro organismo ha sistemi per sciogliere questi coaguli, ma in alcuni casi piccoli frammenti non si disgregano e continuano a circolare. A livello dei polmoni, questi grumi possono bloccare vasi importanti portando a un’embolia polmonare, che può rivelarsi letale. Altri coaguli possono raggiungere il cervello, causando danni permanenti.

L’infezione da coronavirus può inoltre indurre una riduzione nell’ampiezza (lume) dei vasi sanguigni. Diversi studi riferiscono di casi clinici di pazienti con forme di ischemia alle dita dei piedi e delle mani: la ridotta circolazione del sangue in queste zone periferiche porta a gonfiore e dolore nelle dita, e nei casi più gravi a danni permanenti ai loro tessuti cellulari. Altri danni si verificano a livelli dei polmoni, complicando situazioni che in pazienti gravi sono già piuttosto compromesse.

La COVID-19 si sta rivelando sempre più come una malattia non solo polmonare ma anche cardiovascolare, e i ricercatori non ne hanno ancora compreso cause e dinamiche. Un’ipotesi è che anche in questo caso la presenza di ACE2 sulle pareti dei vasi sanguigni e del cuore favorisca la presenza del coronavirus. Potrebbe anche esserci una spiegazione più semplice e legata al fatto che i gravi danni polmonari si riflettono sul resto del sistema cardiocircolatorio, che è strettamente legato a quello polmonare. Comprendere meglio questi meccanismi sarà essenziale per trovare trattamenti più efficaci contro la malattia.

Reni
Uno studio condotto a Wuhan su 85 pazienti ha messo in evidenza come circa un quarto avesse sofferto di gravi forme di insufficienza renale. In un’altra ricerca, condotta su 200 pazienti ricoverati, sono state riscontrate nel 59 per cento dei casi proteine e sangue nelle urine, una condizione che si verifica quando i reni non riescono a filtrare adeguatamente il sangue che li attraversa. Gli individui con precedenti problemi renali seri si sono inoltre rivelati più esposti al rischio di morte dopo avere contratto il coronavirus.

Non è chiaro se e come il coronavirus attacchi direttamente i reni. Per ora gli studi in tema sono scarsi, anche se una ricerca svolta conducendo autopsie sui pazienti ha consentito di rilevare la presenza di tracce del virus nei tessuti renali. L’insufficienza renale potrebbe essere comunque dovuta più in generale ai forti stress cui è sottoposto l’organismo dei malati: l’intubazione è un fattore di rischio per i reni, così come lo sono l’assunzione di farmaci molto pesanti, come gli antivirali che vengono somministrati per rallentare la replicazione del virus.

Nei primi mesi della pandemia ci si è concentrati molto sui ventilatori, essenziali per aiutare i pazienti gravi a respirare e a tenerli in vita, in attesa che il loro sistema immunitario riesca a sbarazzarsi del coronavirus. Diversi medici segnalano nelle loro ricerche l’importanza di dotare gli ospedali di un maggior numero di macchine per la dialisi, terapia che serve a ripulire il sangue da scorie e tossine, nel momento in cui un’insufficienza renale non permetta all’organismo di farlo autonomamente. Una maggiore disponibilità di questi macchinari potrebbe rivelarsi essenziale per salvare la vita di alcuni pazienti gravi.

Cervello
Un’infezione da coronavirus può anche comportare danni importanti a livello neurologico, soprattutto a carico del sistema nervoso centrale. Sono stati segnalati casi di encefaliti (infiammazioni del cervello) e di ictus. Il sistema nervoso centrale è relativamente isolato dal resto dell’organismo, proprio per proteggerlo dagli attacchi degli agenti esterni, e per ora non è chiaro in che misura il coronavirus possa creare danni. Un’indiziata è la presenza di ACE2 nella corteccia cerebrale, ma non ci sono per ora molti elementi in letteratura scientifica.

Uno studio condotto in Giappone ha evidenziato la presenza di tracce del virus nel liquor, il fluido cerebrospinale nel quale galleggia il sistema nervoso centrale. La ricerca è però basata sulle analisi di un solo paziente, che aveva sviluppato encefalite e meningite.

I dati sugli effetti per il cervello della COVID-19 sono ancora molto scarsi, e per questo alcuni neurologi stanno organizzando collaborazioni internazionali per raccogliere informazioni sui pazienti, con l’obiettivo di avere un quadro più preciso della situazione.

Intestino
Diverse ricerche segnalano che il coronavirus riesce a raggiungere anche le parti inferiori del sistema digestivo, dove c’è un’abbondanza di ACE2. In circa la metà delle feci di pazienti con COVID-19 analizzate in uno studio è stata rilevata la presenza di tracce del virus. Un’altra ricerca ha consentito di identificare tracce del coronavirus nelle cellule del retto, del duodeno e di altri tratti intermedi dell’intestino. Questa presenza spiegherebbe perché circa un quinto dei malati di COVID-19 abbia ricorrenti episodi di diarrea.

Altri sintomi
Fino a un terzo dei pazienti ricoverati sviluppa una fastidiosa congiuntivite, un’infezione dell’occhio, anche se non ci sono ancora elementi chiari per capire se e come il coronavirus colpisca direttamente gli occhi. Altri sintomi indicano forti stress per il fegato, anche se in questo caso la causa potrebbero essere i farmaci per rallentare l’avanzamento dell’infezione o più in generale il forte stress che il coronavirus comporta per il sistema immunitario.

Tempo e cautele
Saranno necessari mesi, probabilmente anni, prima di avere conoscenze più approfondite e chiare sulla COVID-19 e gli effetti del coronavirus sul nostro organismo. La maggior parte degli studi diffusi finora sono in formato preprint, quindi pubblicati direttamente dai ricercatori senza che sia effettuata una verifica da loro colleghi alla pari. È una condizione inevitabile per rendere disponibili il prima possibile nuovi elementi alla comunità scientifica, ma questo implica che siano assunte cautele in più nel riferirne i contenuti: alcune evidenze potrebbero essere smentite, e altre potrebbero essere integrate con nuovi elementi.

Dopo emergenza Covid-19 tutti uniti in sciopero

“Tutti uniti in un giorno di sciopero sotto un’unica bandiera, quella Italiana.” È la proposta lanciata da Shc Oss e Federazione Migep a infermieri, medici, oss, tecnici, amministrativi, volontari della Cri e della Croce verde e cittadini. “Una giornata di lotta tutti insieme – scrivono – per un riconoscimento a tutti i professionisti che oggi sono in prima linea e combattono una battaglia su più fronti.”

Migep-Shc: dopo emergenza Covid-19 tutti uniti in un giorno di sciopero

“Una giornata di lotta tutti insieme alla fine dell’emergenza e in sinergia con tutte le professioni del sistema salute sotto un’unica bandiera, quella Italiana, a Roma per un riconoscimento a tutti i professionisti che oggi sono in prima linea e combattono una battaglia su più fronti.”

È questa la proposta lanciata da Shc Oss e Federazione Migep a infermieri, medici, oss, tecnici, amministrativi, volontari della Cri e della Croce verde e cittadini. “Tutti – scrivono in una lettera – debbono allearsi per rinnovare il Ssn, tutti sotto un’unica bandiera quella Italiana a Roma in un unico sciopero nazionale. Auspichiamo un coinvolgimento dei vostri enti per questa giornata, necessaria per tutte le professioni nel post-emergenza, stabilendo insieme una data unica poiché pensiamo che ora più che mai gli Ordini e i sindacati di categoria debbono alzare l’asticella perché resterà nella storia che infermieri, Oss, Asa, Osa, Medici, Infermieri Generici, Puericultrici e altre figure, hanno combattuto in prima linea a costo della vita.”

“Tutti gli operatori della sanità e del socio sanitario, nessuno escluso, si stanno prodigando oltre ogni limite al fine di arginare questa pandemia – continua la lettera – l’opinione pubblica che sovente in passato ci vedeva come causa di una cattiva sanità, ora ci definisce eroi. Non siamo eroi. Semplicemente siamo delle persone come tante altre, con i propri pregi e difetti, che, ciascuno per il proprio ruolo e profilo di competenza, cercano di fare al meglio il proprio lavoro, affrontando, ogni giorno, le conseguenze degli spasmodici tagli che negli ultimi 15 anni sono stati fatti, indiscriminatamente, alla nostra sanità.”

“Ci troviamo tutti sulla medesima barca. Perché non remare tutti insieme contemporaneamente e far rotta verso il medesimo porto?”

“Perché non fare fronte comune e cercare, tutti insieme, medici, infermieri, infermieri generici, puericultrici, oss, asa, osa, tecnici, e altre figure di intraprendere un’unica e sola rivendicazione corale contro il proseguimento di una politica che ha massacrato la sanità e le cui conseguenze, da sempre denunciate, oggi il coronavirus ha messo ben in risalto ed evidenza.”

“Questo risultato scellerato era ben chiaro, ed altresì a tutti gli operatori assistenziali. Ora lo è anche per il cittadino utente. Noi stessi operatori viviamo un dramma doppio: prima come lavoratori del settore poi anche come cittadini utenti. La storia ci ha insegnato che nei momenti difficili e bui si è sempre costituito un fronte comune per lottare. Uniti si vince, divisi si perde sempre. Divisi abbiamo perso delle battaglie i cui esiti oggi sono sotto gli occhi di tutti. Ora proviamo ad unirci insieme e a vincere la guerra.”

AIFITEC ringrazia i medici, infermieri ed OSS nonché tutto il personale del Grande Ospedale Metropolitano di Reggio Calabria offrendo Colombe Pasquali.

Cinquanta colombe pasquali artigianali prodotte dall’Antica Pasticceria Caridi della nostra città sono state offerte il Sabato Santo al Grande Ospedale Metropolitano di Reggio Calabria.

Le Colombe, quale ringraziamento ed augurio, per tutti i medici, infermieri ed Operatori Socio Sanitari nonché tutto il personale del G.O.M. per l’impegno che in questi giorni gravissimi di pandemia, stanno profondendo a favore della cittadinanza di Reggio Calabria e Provincia.

La Vice-Presidente dell’AIFITEC, Agenzia Internazionale di Formazione ed Istruzione Tecnologica con sedi in Reggio Calabria, Karolina Maria Sangrigoli si è fatta portatrice di tutte le istanze da  parte sia dell’Amministrazione, dei Collaboratore e dei Docenti e degli allievi tutti che giornalmente si sono impegnati e si impegnano nella formazione dei nuovi Operatori Socio Sanitari.

La Vice-Presidente, Karolina Maria Sangrigoli ha rimarcato l’importanza di avere un Grande Ospedale che sia forza propulsiva della Sanità in Calabria, sottolineando come: “ medici, infermieri ed Operatore socio sanitari del GOM, in questo periodo, siano stati presenti nell’assistenza sanitaria ai cittadini, senza soste, anche con turni massacranti, ben oltre gli orari previsti, per abbattere questo virus da pandemia. Ed a riprova di ciò -ha continuato la Vice-Presidente AIFITEC – che i nostri sanitari reggini siano in effetti un’eccellenza basta guardare i risultati ottenuti sino ad oggi, con una minima percentuale di utenti in Terapia intensiva ed un alta percentuale in dimessi.”

La Vice-presidente, Karolina Maria Sangrigoli, ha inoltre precisato che questo gesto da parte di AIFITEC è un gesto di piena solidarietà umana e sociale scevro da ogni interesse di parte e personale.

A ricevere le Colombe, prodotte artigianalmente da un’azienda pasticciera- Sorelle Caridi-  che è presente da diversi lustri in Reggio Calabria, è stato il Dott. Santo Laganà, responsabile dell’Ufficio Relazione con il Pubblico del Grande Ospedale Metropolitano di Reggio Calabria.

La Sig.ra Karolina Maria Sangrigoli ha rimarcato come AIFITEC con sedi in tutta la provincia di Reggio Calabria, abbia organizzato proprio in questi giorni di grave pandemia i Corsi per Operatore Socio Sanitario in e-learning sia on line che off-line.

AIFITEC per il socio-sanitario è a disposizione del pubblico sia telefonicamente al numero 334 2686353 – oppure 0965 334972 – ed anche via mail: aifitec@aifitec.net sul sito www.aifitec.eu.

Colombe consegnate al Responsabile del GOM del Grande Ospedale Metropolitano di Reggio Calabria, dott. Santo Laganà.

Il Vice-Presidente dell’AIFITEC, KAROLINA MARIA SANGRIGOLI, sulla destra, alla consegna delle Colombe Pasquali.

Coronavirus, bonus da mille euro a testa per i sanitari

Tutti i medici, infermieri, tecnici e operatori socio-sanitari impegnati in queste settimane negli ospedali dell’Emilia-Romagna contro il Covid-19 riceveranno un bonus di mille euro come “segnale concreto di riconoscimento” da parte della Regione. Ad annunciarlo, il sottosegretario Davide Baruffi, in conferenza stampa col governatore Stefano Bonaccini. “Sarà una tantum – ha sottolineato Baruffi – ma vogliamo che arrivi subito nelle loro tasche.”

Misura da 65 milioni di euro per riconoscimento una tantum ai sanitari

Mille euro a testa per gli operatori sanitari in prima linea nella lotta al coronavirus in Emilia-Romagna. È il contributo che la Regione ha deciso di assegnare come riconoscimento a tutti i medici, infermieri, tecnici e operatori socio-sanitari impegnati in queste settimane negli ospedali contro il Covid-19.

Vuole essere un “segnale concreto di riconoscimento – spiega il sottosegretario Davide Baruffi, in conferenza stampa col governatore Stefano Bonaccini – chi è in prima linea merita il plauso di tutti i cittadini e noi mettiamo in campo 65 milioni di euro per riconoscere ai lavoratori un contributo aggiuntivo di mille euro a testa.”

Si tratta di una “misura eccezionale per la sua dimensione – continua Baruffi – sarà una tantum, ma vogliamo che arrivi subito nelle loro tasche.” Per questo la misura è stata disposta in accordo coi sindacati e le rappresentanze dei medici di medicina generali. In questo modo, “riusciremo a erogarli immediatamente,” ribadisce Baruffi.

La misura rientra nel pacchetto da 320 milioni euro, tra investimenti e parte corrente, che la giunta regionale dell’Emilia-Romagna ha deciso di mettere in campo per rispondere all’emergenza coronavirus.

Tra gli interventi previsti, oltre al premio ai sanitari impegnati nell’emergenza (65 milioni di euro), 20 milioni di euro per creare l’hub nazionale di terapia intensiva. Il pacchetto di misure è stato deciso “mobilitando tutto quello che è disponibile”, hanno sottolineato Baruffi e Bonaccini in conferenza stampa, “usando anche l’avanzo di bilancio.”

Saranno poi le parti sociali (sindacati, ndr.) anche a livello aziendale a decidere la ripartizione del contributo: di più a chi è stato in prima linea e meno a chi ha lavorato in altri reparti. Spiegano Baruffi e Bonaccini.