CoViD-19: la strategia inglese contro il coronavirus

Contro la CoViD-19 e il nuovo coronavirus la Gran Bretagna potrebbe preparare il più colossale esperimento sociale mai tentato, esponendo al contagio i suoi cittadini.

Concentrare tutti gli sforzi nella protezione dei più deboli, e lasciar diffondere in modo controllato il virus nel resto della popolazione. Potrebbe essere questa la strategia (pericolosa) che il governo britannico intende intraprendere contro la CoViD-19, stando ad alcuni articoli apparsi sui media d’Oltremanica. L’obiettivo è raggiungere la cosiddetta immunità di gregge, che determinerebbe la fine dell’epidemia, e che per altre malattie infettive si ottiene vaccinando la popolazione. Secondo le indiscrezioni, i britannici ritengono che per arrivare a quel risultato sarebbero sufficienti misure non eccessivamente restrittive.

L’immunità di gregge funziona per infezioni che si possono prendere una sola volta nella vita, come il morbillo o la rosolia. Il sistema immunitario, infatti, è dotato di un meccanismo che non consente all’agente infettivo di scatenare una seconda volta la malattia. Così, se gran parte della popolazione è immune (perché è vaccinata, o perché si è già ammalata), il virus non riesce a circolare e l’epidemia si spegne.

Puntare esclusivamente sull’immunità di gregge per la CoViD-19 pare tuttavia molto pericoloso. Per altre malattie, infatti, questa si ottiene quando il 90-95% della popolazione è immunizzato. Se l’obiettivo di Londra è appiattire la curva, è probabile che quando l’onda dell’epidemia arriverà anche nelle isole britanniche si renderanno necessarie misure e restrizioni analoghe a quelle messe in campo da Paesi come il nostro. Misure prese in attesa di una terapia efficace o di vaccino che permetterebbe – questo sì – di ottenere un’immunità di gregge per la CoViD-19 senza mettere a repentaglio la salute di tanti.

12 MARZO 2020 | MARGHERITA FRONTE

L’OMS ha dichiarato la pandemia per il coronavirus

Ha quindi riconosciuto che il virus si è diffuso in un’area molto vasta, che coinvolge moltissimi paesi del mondo.

L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha dichiarato la pandemia per il coronavirus (SARS-CoV-2): significa che ha riconosciuto che il virus è ormai diffuso in buona parte del mondo, in aree molto più vaste e diffuse rispetto a quelle solitamente interessate da un’epidemia, che coinvolge zone specifiche di paesi o continenti.

Le parole “epidemia” e “pandemia” riguardano le malattie infettive, quelle causate da agenti che entrano in contatto con un individuo (come i virus, appunto), si riproducono e ne causano un’alterazione.

La differenza tra epidemia e pandemia non ha a che fare con la gravità di una malattia, ma con la sua diffusione geografica. Le malattie infettive, spiega l’Istituto Superiore della Sanità, hanno caratteristiche diverse di diffusione. Alcune sono molto contagiose e altre lo sono meno. In base alla suscettibilità della popolazione e alla circolazione dell’agente infettivo, una malattia infettiva può manifestarsi in una popolazione in forma sporadica, epidemica, endemica o pandemica (“Pan-demos”, in greco, significa “tutto il popolo”).

Il caso sporadico è quello che si manifesta in una popolazione in cui una certa malattia non è sempre presente. Una malattia è invece definita endemica quando l’agente responsabile è stabilmente presente e circola nella popolazione, manifestandosi con un numero di casi più o meno elevato, ma distribuito uniformemente nel tempo.

L’epidemia è la manifestazione collettiva di una malattia, e si verifica quando il numero dei casi aumenta rapidamente in breve tempo e interessa in una particolare area un numero di persone più alto rispetto alla media, per una certa comunità. Gli elementi che portano a un contagio inaspettato e quindi al superamento della soglia di trasmissione possono essere diversi. L’agente infettivo diventa più resistente; varia, cioè si riduce, l’immunità verso quell’agente; oppure l’agente non era prima presente all’interno di una popolazione che dunque si trova ad affrontarlo per la prima volta.

L’OMS parla invece di pandemia quando un nuovo agente patogeno per il quale le persone non hanno immunità si diffonde rapidamente e con facilità in una zona molto più vasta e diffusa rispetto a quella solitamente interessata da un’epidemia. L’OMS identifica sei fasi che portano alla pandemia: una di queste prevede un’area con una presenza di infezioni paragonabile a quella del paese in cui sono iniziati i contagi. I dati che provengono da altre parti del mondo al di fuori della Cina vengono oggi interpretati dall’OMS come significativi di una pandemia.

Tra le pandemie più conosciute nella storia ci fu la cosiddetta “spagnola” che si diffuse tra il 1918 e il 1919, e l’asiatica del 1957.

Cosa vuol dire isolare un virus

E perché è importante il risultato ottenuto dall’Istituto Nazionale Malattie Infettive “Lazzaro Spallanzani”, anche se non è arrivato per primo.

Domenica 2 febbraio, l’Istituto Nazionale Malattie Infettive “Lazzaro Spallanzani” ha annunciato di avere isolato il nuovo coronavirus (2019-nCoV), che ha causato oltre 360 morti in Cina e 17mila casi di contagio. Agenzie di stampa e media italiani hanno ampiamente ripreso la notizia, parlando dell’Italia come del “primo paese” ad avere isolato il virus. In realtà lo stesso risultato era stato ottenuto nelle settimane scorse da diversi altri centri di ricerca, a cominciare da quelli cinesi. Esserci arrivati prima o dopo non toglie comunque nulla all’importanza del risultato ottenuto dallo Spallanzani, che aiuterà i ricercatori a comprendere meglio le caratteristiche del coronavirus e a testare farmaci e vaccini per contrastarlo.

Che cos’è un virus?
Per farsi un’idea di cosa significhi isolare e sequenziare un virus, conviene fare un breve ripasso di biologia. I virus sono entità biologiche piuttosto semplici e si comportano come i parassiti: hanno cioè bisogno di un altro organismo per moltiplicarsi e prosperare. Le modalità di sviluppo e di trasmissione dei virus variano molto a seconda delle specie, ma in linea di massima seguono questo schema: si intrufolano nelle cellule, ingannando le difese delle loro membrane, e successivamente iniettano il loro codice genetico per modificare il comportamento della cellula e sfruttarla per replicarsi.

La presenza del virus innesca una risposta immunitaria da parte dell’organismo infettato (negli animali), che di solito consente di eliminarlo. Il sistema immunitario serba poi memoria dell’incontro, in modo da impedire al virus di fare nuovamente danni; i vaccini consentono di acquisire questa memoria senza che ci si debba ammalare. Alcuni virus sono però più pericolosi di altri e riescono a causare infezioni croniche, come avviene per esempio con l’HIV.

Cosa vuol dire isolare un virus?
Lo scopo dell’isolamento è ottenere la possibilità di produrre grandi quantità dello stesso virus, in modo da poterlo poi studiare o sfruttare per verificare il modo in cui reagisce con alcuni farmaci.

Un virus viene “isolato” quando è separato dall’organismo infetto iniziale. Semplificando: si prelevano campioni (sangue, tessuto cellulare, urina o altro) dall’individuo interessato e li si trasferiscono in laboratorio, avendo cura che questi non subiscano contaminazioni. Una prima attività riguarda la “pulizia” del campione, un trattamento essenziale per escludere funghi e batteri, che interferirebbero con l’attività virale.

Come abbiamo visto, i virus hanno bisogno delle cellule per moltiplicarsi, a differenza per esempio dei batteri che producono e sviluppano colonie autonomamente. I ricercatori devono quindi trovare il modo di “coltivare” il virus, cioè di indurlo a replicarsi. Possono farlo con tecniche in vivo o in vitro: nella prima si utilizza un intero organismo vivente (come un animale o una pianta), mentre nella seconda tutto avviene su piastre e provette di vetro.

In vitro
Diversi tipi di cellule possono essere impiegati per far crescere e moltiplicare i virus, da un campione di partenza. Si parte di solito da cellule prelevate da un animale, che vengono preparate in una coltura che viene poi messa in contatto con il campione virale. Questa tecnica avvia un fenomeno (adsorbimento) attraverso il quale il virus può intrufolarsi nelle cellule o inserire il suo codice genetico, infettarle e indurle a produrre un gran numero di sue nuove copie.

In vivo
Di solito per la tecnica in vivo si utilizzano embrioni in fase di sviluppo, per esempio nel caso del vaccino influenzale si procede utilizzando le uova fecondate (lo avevamo raccontato estesamente qui). L’embrione o l’intero animale fanno da incubatore per la replicazione virale, utile poi per studiare il virus e le sue caratteristiche.

Studio del virus
Dalle colture in vitro o in vivo si possono ottenere campioni, per poter osservare su una scala più grande gli effetti del virus. Di solito l’osservazione inizia al microscopio per valutare i danni causati dall’infezione. Le cellule colonizzate mostrano anormalità (“effetto citopatico”) come cambiamenti nella forma, anomalie nelle loro membrane e nei nuclei.

E che cos’è il sequenziamento?
In biologia molecolare, il sequenziamento serve per avere una trascrizione dell’ordine delle basi (adenina, citosina, guanina e timina) che fanno parte del frammento di DNA che si sta analizzando (nel caso dei virus è molto spesso l’RNA, una versione semplificata). Nella sequenza sono codificati i geni, e le istruzioni per quando e come devono essere espressi (espressione genica). In generale, se ottieni la sequenza puoi capire il come e il perché della vita di un organismo. Di alcune porzioni di DNA conosciamo già le funzioni, quindi i ricercatori possono mettere a confronto la sequenza che hanno ottenuto con quelle già conosciute, in modo da ricostruire almeno in parte cosa è codificato nel DNA.

Per sequenziare un virus, si esamina un campione prelevato da un individuo infetto e se ne effettua poi l’analisi. Il problema è che in queste condizioni il materiale genetico del virus è confuso con quello della cellula che è stata colonizzata. I progressi raggiunti negli ultimi anni hanno consentito di attenuare il problema e di accelerare i processi di sequenziamento, attraverso i virus isolati.

Le prime righe del sequenziamento del nuovo coronavirus:

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Che cosa hanno fatto allo Spallanzani?
Le ricercatrici Concetta Castilletti, Francesca Colavita e Maria Rosaria Capobianchi nei giorni scorsi si sono messe al lavoro sui campioni prelevati da uno dei due pazienti cinesi, ricoverati presso lo Spallanzani dopo che avevano mostrato sintomi da infezione da nuovo coronavirus. I campioni sono stati poi utilizzati per isolare il virus e coltivarlo, seguendo le procedure di sicurezza per evitare contagi.

Dopo qualche giorno, il gruppo di ricerca ha riscontrato l’effetto citopatico, a conferma del successo nella coltivazione del virus. Non era un risultato scontato, visto che il tasso di successo è di solito intorno al 10 per cento, cosa che rende necessaria la preparazione di più colture alle giuste condizioni ambientali. In Italia è stato inoltre sequenziato il nuovo coronavirus, trovando caratteristiche genetiche analoghe a quelle già rilevate in precedenza da altri centri di ricerca.

Chi ha sequenziato per primo il nuovo coronavirus?
Le prime polmoniti sospette sono state riscontrate a Wuhan, la città cinese epicentro della crisi sanitaria, alla fine del 2019, inducendo diversi centri di ricerca in Cina a effettuare controlli di laboratorio sui pazienti interessati. Il 10 gennaio, a poco più di un mese dal primo caso di polmonite, i ricercatori cinesi hanno annunciato di avere sequenziato il nuovo coronavirus, e hanno reso pubblici i risultati della loro analisi. La rapidità è stata notevole, se si considera che con il coronavirus che causa la SARS i tempi furono molto più lunghi, a testimonianza dei progressi raggiunti negli ultimi anni.

Nelle settimane successive, centri di ricerca in Cina e in altre parti del mondo hanno sequenziato campioni di coronavirus prelevati da altri pazienti, ottenendo informazioni genetiche su una ventina di casi. Il 31 gennaio scorso, l’Istituto Pasteur della Francia ha annunciato di avere isolato il nuovo coronavirus, da campioni prelevati da un paziente cinese infetto ricoverato in un ospedale francese.

OK, ma quindi la storia di essere arrivati primi?
Domenica 2 febbraio, il ministro della Salute Roberto Speranza ha annunciato con grande enfasi, nel corso di una conferenza stampa, l’isolamento del nuovo coronavirus da parte dello Spallanzani, ma non ha detto che l’Italia avesse raggiunto per prima questo risultato. Il gruppo di ricerca ha poi esposto i risultati delle attività svolte presso l’istituto, senza intestarsi alcun primato.

Nel comunicato stampa diffuso dall’Istituto si parlava invece di “primi in Europa”: l’ufficio stampa ha spiegato al Post che il testo era stato scritto nella serata di venerdì 31 gennaio, senza essere al corrente dell’annuncio dell’Istituto Pasteur.

Perché non c’è un vaccino contro il nuovo coronavirus?

Semplicemente perché è troppo presto, ma sono già in corso le ricerche per produrlo, e il più in fretta possibile.

Contro il nuovo coronavirus (2019-nCoV) – che ha causato oltre cento morti in Cina e il contagio di migliaia di persone, non ci sono cure né vaccini. Mentre il personale medico offre assistenza ai malati per trattare i sintomi, e le autorità cinesi provvedono alle attività di contenimento delle infezioni, alcuni centri di ricerca e aziende farmaceutiche in giro per il mondo sono al lavoro per realizzare un vaccino, nella speranza di riuscirci in tempi stretti. Attualmente, la soluzione più rapida e praticabile per ridurre i rischi resta l’isolamento dei pazienti e lo stretto controllo sui nuovi contagi, ma nel caso in cui la situazione dovesse peggiorare, un vaccino potrebbe rivelarsi determinante.

Le società farmaceutiche Johnson & Johnson, Moderna Therapeutics e Inovio Pharmaceuticals sono già al lavoro per lo sviluppo di vaccini contro il nuovo coronavirus, così come alcuni centri di ricerca privati e pubblici, come i National Institutes of Health (NIH), l’agenzia del dipartimento della Salute degli Stati Uniti.

Inovio ha ricevuto un fondo da 9 milioni di dollari dalla Coalition for Epidemic Preparedness Innovations (CEPI), un’organizzazione che utilizza fondi forniti da governi e fondazioni per finanziare la ricerca di soluzioni contro malattie che potrebbero causare epidemie su larga scala. L’iniziativa esiste da qualche anno ed è nata in seguito ai casi di Ebola nell’Africa occidentale. CEPI ha finanziato almeno altri due programmi di ricerca per lo sviluppo di un vaccino contro 2019-nCoV.

Nell’ultimo secolo, i vaccini si sono rivelati una risorsa fondamentale per ridurre al minimo la diffusione di malattie, anche molto pericolose, salvando centinaia di milioni di vite umane. Per molto tempo lo sviluppo di un vaccino contro un virus completamente nuovo ha richiesto tempo – mediamente tra i due e i tre anni – ma negli ultimi tempi i progressi nella genomica (la scienza che studia il genoma, la totalità del DNA o RNA contenuto in un organismo) e un maggiore coordinamento internazionale hanno consentito di accelerare sensibilmente i tempi. I ricercatori che lavorano al vaccino contro 2019-nCoV confidano di arrivare ai primi test entro tre mesi.

Prima di potere essere impiegato sulla popolazione e su larga scala, un vaccino deve superare una complessa serie di test, prima sugli animali e successivamente su gruppi di esseri umani. L’intero processo richiede tempo e difficilmente può essere svolto in meno di un anno, dall’inizio dello sviluppo al suo impiego. Allo stato attuale i vaccini non sono quindi utili per le prime fasi di un’epidemia con un nuovo virus, banalmente perché ancora non esistono, ma potrebbero diventarlo in una seconda fase se il contagio proseguisse e diventasse diffuso.

Salvo alcune eccezioni, ogni volta che viene scoperto un nuovo virus, i ricercatori devono ricominciare da zero per analizzarlo e comprendere quali siano i suoi punti deboli. Quando ci furono i casi di SARS in Cina nel 2003, furono necessari 20 mesi prima che fosse pronto per i test clinici un vaccino, sulla base delle informazioni genetiche raccolte sul virus che causava la grave sindrome respiratoria. Nel 2015 per il virus Zika furono invece necessari appena 6 mesi, a testimonianza dei progressi in ambito tecnico e della ricerca.

Nel caso della SARS le lentezze furono in parte dovute alle reticenze del governo cinese, che preferì non diffondere da subito alcune informazioni sulla malattia e i contagi, temendo che la notizia potesse danneggiare l’economia della Cina in piena crescita. Con il nuovo coronavirus le cose sono andate diversamente: nei primi giorni del 2020, i ricercatori cinesi hanno messo a disposizione i profili genetici del virus, condividendoli con la comunità scientifica internazionale.

I ricercatori statunitensi dell’NIH hanno potuto confrontare le caratteristiche genetiche del nuovo coronavirus con quelle dei coronavirus che causano la SARS e la MERS, altra malattia infettiva particolarmente aggressiva emersa qualche anno fa in Cina (e contenuta prima che potesse causare un’epidemia su larga scala). Si sono concentrati sulle “punte” del coronavirus, quelle che danno il nome a questa famiglia di virus proprio perché i loro contorni ricordano il profilo di una corona.

Due virioni del nuovo coronavirus al microscopio elettronico (Centro Dati Nazionale di Microbiologia, Cina)

Le punte sono formate dai “peplomeri”, le strutture proteiche che insieme ad altri meccanismi servono ai virus per attaccarsi alle cellule dell’organismo da infettare. Una volta che si sono legati alle cellule ospiti, i virus rilasciano il loro codice genetico modificando il comportamento della cellula. Questo processo fa sì che si attivi una risposta immunitaria da parte dell’organismo infettato, che cerca di sbarazzarsi del virus (solitamente facendo alzare la temperatura: in pratica viene la febbre).

I ricercatori sanno che bloccando le punte si può togliere al coronavirus la sua capacità di legarsi alle cellule che vuole colonizzare. Per questo in passato all’NIH, come in altri centri di ricerca, sono stati sviluppati vaccini sperimentali che spuntavano le corone dei coronavirus che causano la SARS e la MERS. Nel primo caso il vaccino non è mai stato commercializzato perché la SARS è stata contenuta per tempo, mentre nel secondo il vaccino è ancora in fase di perfezionamento e lo scorso anno ha superato i primi test su esseri umani.

Considerate le somiglianze tra il coronavirus della SARS e l’attuale, i ricercatori dell’NIH hanno pensato di accelerare lo sviluppo di un nuovo vaccino riproducendo alcuni dei meccanismi già sviluppati. Hanno quindi sostituito solo parte del codice genetico, inserendo quello del nuovo coronavirus, e poi ne hanno testato l’efficacia. È il primo passo di un lavoro di ricerca più lungo, che potrà essere proseguito dalle aziende farmaceutiche come Moderna. L’obiettivo è di trovare il modo di creare un vaccino che “insegni” al sistema immunitario a riconoscere le punte del coronavirus, e a contrastarle evitando che il virus riesca a legarsi alle cellule.

Il progetto prevede una collaborazione che interesserà altre istituzioni e centri di ricerca, in modo da avere in poche settimane un prototipo del vaccino da testare in laboratorio. Se il vaccino sperimentale si rivelerà promettente a sufficienza, continuerà a essere sviluppato e, appurata la sua sicurezza, messo alla prova sugli esseri umani.

Inovio, un’altra azienda farmaceutica, confida invece di avere un altro vaccino sperimentale pronto per l’inizio dell’estate. I suoi ricercatori hanno analizzato il profilo genetico del nuovo coronavirus e, tramite alcuni modelli al computer, si sono concentrati sulle sue parti più vulnerabili. Se i test nell’estate dovessero dare esiti positivi, i ricercatori potrebbero iniziare a sperimentare il vaccino in Cina entro la fine dell’anno.

Johnson & Johnson stima che potrebbero essere necessari dagli 8 ai 12 mesi per iniziare i test clinici del suo vaccino su esseri umani. Per allora la crisi sanitaria legata a 2019-nCoV potrebbe essere finita, ma non c’è ancora modo di saperlo e le organizzazioni sanitarie internazionali preferiscono non farsi trovare impreparate. Anche per questo motivo il modello della partecipazione tra governi e fondazioni adottato da qualche anno si sta rivelando proficuo: fa da incentivo alla ricerca per lo sviluppo di soluzioni che potrebbero rivelarsi superflue, e che in altre circostanze non verrebbero esplorate.

Allo stato attuale, salvo particolari complicazioni, in buona parte dei casi il sistema immunitario delle persone con nuovo coronavirus impara a contrastare la sua presenza, portando alla guarigione. Le notizie sulle persone infette e poi guarite provenienti dalla Cina non sono però ancora molto chiare, così come non lo sono quelle su chi sviluppa sintomi gravi e deve restare a lungo in ospedale, per ricevere trattamenti che riducano i sintomi e aiutino il sistema immunitario a reagire.

Il sistema immunitario mantiene di solito memoria dei virus che ha incontrato, e impedisce loro di costituire nuovamente un rischio. I vaccini sono un’ottima soluzione per far sviluppare questa memoria senza che ci si debba ammalare, riducendo quindi i rischi soprattutto per le persone più esposte a causa di altri problemi di salute. L’immunizzazione e la riduzione dei contagi contribuiscono a fermare un’epidemia, evitando che si diffonda.

Mentre si lavora ai vaccini, l’attività più importante per ridurre i rischi di nuovi contagi passa dall’isolamento dei nuovi casi e dalle buone pratiche igieniche. Seppure con colpevoli ritardi iniziali da parte delle autorità cinesi, lo sforzo internazionale permise 16 anni fa di contenere l’epidemia di SARS senza che fosse ancora disponibile un vaccino, e qualcosa di analogo sarebbe successo qualche anno dopo con la MERS.