A che punto siamo con i farmaci contro il coronavirus

Una collaborazione internazionale sta studiando oltre 50 principi attivi che potrebbero fermare il virus, mentre c’è un primo insuccesso di una terapia antivirale.

Migliaia di ricercatori in tutto il mondo sono al lavoro per trovare nuovi trattamenti contro la COVID-19, la malattia causata dal coronavirus. Uno dei progetti più promettenti è stato organizzato dall’Università della California (San Francisco) e ha portato all’identificazione di 50 farmaci già esistenti e sviluppati per altre malattie, che potrebbero offrire nuovi sistemi per bloccare il virus e impedirgli di replicarsi nelle cellule del nostro organismo. Rispetto ad altre epidemie emerse in passato e su scala più piccola, le ricerche stanno procedendo più velocemente, tra speranze e primi insuccessi nelle sperimentazioni.

Non c’è cura
A oggi contro la COVID-19 non c’è una cura. La maggior parte degli infetti sviluppa sintomi lievi, che passano dopo un paio di settimane di isolamento a casa assumendo farmaci per ridurre febbre e dolori. Per gli altri può essere necessario il ricovero in ospedale a causa di sintomi più gravi, soprattutto a carico dell’apparato respiratorio. I pazienti ricoverati sono trattati nei normali reparti o in terapia intensiva, a seconda delle loro condizioni, ma con trattamenti che possono solamente ridurre i sintomi o favorire la respirazione (tramite mascherine a ossigeno o con l’intubazione). L’obiettivo è guadagnare tempo, evitando che il paziente si aggravi mentre il suo sistema immunitario reagisce all’infezione per sbarazzarsi del virus.

Farmaci e proteine
La ricerca di farmaci efficaci si sta quindi concentrando sull’identificazione di principi attivi che possano bloccare il coronavirus, impedendogli di attaccare le cellule e di sfruttarle per replicarsi e aumentare l’infezione. Centinaia di ricercatori coordinati dal Quantitative Biosciences Institute Coronavirus Research Group (QBI) dell’Università della California, per esempio, stanno studiando i farmaci oggi disponibili sul mercato, per identificare i candidati più promettenti contro la COVID-19. L’obiettivo è trovare principi attivi che facciano da barriera tra il coronavirus e le proteine delle nostre cellule che vengono sfruttate dal virus per produrre le sue copie.

Le ricerche presso il QBI sono state avviate a inizio gennaio, quando erano iniziate a circolare le prime informazioni sul coronavirus (SARS-CoV-2), in seguito ai primi casi gravi di polmoniti atipiche nell’area di Wuhan, in Cina, da dove è partita l’attuale epidemia. L’attività più importante ha riguardato lo studio delle proteine presenti nelle nostre cellule che vengono sfruttate dal coronavirus per replicarsi. Una mappatura di questo tipo richiede di solito un paio di anni per essere svolta, ma grazie alla collaborazione di una ventina di laboratori è stato possibile ottenere una prima mappa in una manciata di settimane.

Mappa
Il risultato è stato reso possibile dalle conoscenze accumulate negli anni scorsi, attraverso lo studio di altri virus. I ricercatori avevano per esempio già svolto una mappa delle proteine sfruttate dall’HIV e da alcuni virus che causano Ebola e la dengue.

Gli studi di laboratorio svolti a febbraio hanno permesso di scoprire oltre 400 proteine che, in un modo o nell’altro, sembrano essere coinvolte dall’attività del coronavirus sul sistema respiratorio. Sono sfruttate in vario modo, per esempio per eludere le difese dell’involucro protettivo della cellula (membrana cellulare), inserire il codice genetico (RNA) del coronavirus e sfruttare poi le strutture cellulari (organuli) per produrre nuove copie del virus, che vengono rilasciate dalla cellula. Queste copie attaccano poi altre cellule dell’apparato respiratorio per replicarsi ulteriormente. Il sistema immunitario reagisce con un’infiammazione, che serve a uccidere il virus e a distruggere le cellule che fanno da fotocopiatrici, ma non sempre il contrattacco è efficace e così si assiste a un peggioramento dei pazienti.

La mappa ha messo in evidenza diverse interazioni tra il coronavirus e proteine cellulari che, almeno finora, non sembrano avere nulla a che fare con la produzione di nuove copie del virus. Queste interazioni passate inosservate finora potrebbero nascondere la chiave per capire alcune caratteristiche della replicazione virale, offrendo la possibilità di intervenire per bloccarla. Per ogni proteina della mappa, i ricercatori stanno analizzando i principi attivi di migliaia di farmaci già esistenti, e progettati per altre malattie, alla ricerca di soluzioni per impedire al coronavirus di approfittarsene.

Un primo set di dieci farmaci è stato di recente inviato dal QBI al Mount Sinai Hospital di New York e all’Istituto Pasteur di Parigi. I test di laboratorio prevedono, tra le altre cose, l’analisi della reazione del coronavirus ai principi attivi in cellule di primati non umani in vitro. A seconda dei risultati, i ricercatori potranno poi testare i farmaci su cavie animali infettate con il coronavirus.

Solo dopo questi primi test si potrà procedere con la sperimentazione sugli esseri umani, con grande attenzione per gli eventuali effetti collaterali. Principi attivi utili per ridurre la replicazione del coronavirus intervenendo su alcune proteine, per esempio, potrebbero avere effetti imprevisti su altre attività dell’organismo. Le nuove tecnologie e l’impegno di numerosi ricercatori stanno consentendo di accorciare i tempi, ma saranno comunque necessari mesi prima di identificare un eventuale trattamento efficace per i casi più gravi di COVID-19.

Antivirali
Il lavoro del QBI interessa numerosi farmaci sviluppati per trattare alcune forme di tumore e non necessariamente le infezioni virali. Altri ricercatori si stanno invece dedicando agli antivirali già disponibili, cioè ai farmaci che vengono utilizzati per rallentare o fermare la replicazione dei virus. I loro principi attivi sono piuttosto specifici, ma si ipotizza che con una giusta combinazione si possano ottenere risultati anche con la COVID-19.

Tra gli antivirali ritenuti per ora più promettenti c’è il remdesivir, farmaco di recente introduzione, sviluppato negli anni delle epidemie causate da Ebola in Africa occidentale tra il 2013 e il 2016. La sua sperimentazione portò a risultati che sembravano essere incoraggianti, ma un impiego su più grande scala rivelò una scarsa efficacia rispetto ad altre soluzioni. Il farmaco era stato sperimentato anche per trattare alcuni casi di MERS e SARS, sindromi respiratorie causate da altri coronavirus, con qualche risultato positivo.

Il remdesivir è attualmente oggetto di almeno cinque sperimentazioni cliniche. L’obiettivo è capire non solo se sia efficace contro l’attuale coronavirus, ma anche se comporti effetti collaterali tollerabili dai pazienti. In alcuni casi, infatti, farmaci molto potenti potrebbero avere la controindicazione di arrecare più danno che benefici, e trovare il giusto equilibrio non è semplice.

Primo insuccesso
Dalla Cina sono intanto arrivate le prime valutazioni su un’altra sperimentazione con antivirali che era stata ritenuta promettente, e le notizie non sono buone. Sulla rivista scientifica The New England Journal of Medicine, un gruppo di ricercatori ha segnalato di non avere rilevato benefici su pazienti gravemente malati di COVID-19 dopo la somministrazione di lopinavir e ritonavir, due antivirali normalmente impiegati contro l’HIV e che sembravano essere indicati nel trattamento di infezioni da coronavirus.

Nello studio, i ricercatori spiegano comunque che la loro esperienza è stata parziale e che le loro conclusioni non devono essere considerate definitive. La ricerca è stata condotta su 199 adulti di età compresa tra i 49 e i 68 anni, tutti ricoverati in gravi condizioni a causa del coronavirus in un ospedale di Wuhan. Per 14 giorni metà è stata trattata con le normali terapie e metà con i due antivirali: al termine della sperimentazione non sono state rilevate differenze tra i due gruppi né in termini di accorciamento della malattia né nella riduzione delle morti.

In un editoriale che accompagna lo studio, medici e ricercatori sono stati lodati per l’accuratezza del loro lavoro, realizzato in condizioni molto difficili con gli ospedali pieni di pazienti da assistere. L’auspicio è che sperimentazioni cliniche come questa siano ripetute in altre strutture ospedaliere, per avere più dati e informazioni sull’eventuale efficacia di farmaci e trattamenti.

C’è un primo vaccino sperimentale contro il coronavirus

Prodotto in pochissimo tempo, entro fine aprile sarà sperimentato sui primi esseri umani: ma ci sono molte incertezze sulla sua efficacia.

L’azienda farmaceutica statunitense Moderna ha terminato lo sviluppo di un primo vaccino sperimentale contro il coronavirus (SARS-CoV-2), a meno di tre mesi di distanza dalla scoperta in Cina delle prime polmoniti causate dalla malattia (COVID-19). La velocità con cui è stato ottenuto questo risultato è importante e con pochi precedenti, ma questo non implica che il nuovo vaccino sia sicuro ed efficace: per scoprirlo saranno necessari mesi di sperimentazioni, dagli esiti piuttosto incerti.

Moderna esiste da poco meno di dieci anni, ha la sua sede principale a Cambridge (Massachusetts, Stati Uniti) ed è specializzata nella ricerca e nello sviluppo di farmaci basati sull’RNA messaggero (mRNA), la molecola che si occupa di codificare e portare le istruzioni contenute nel DNA per produrre le proteine. Semplificando molto, Moderna ha l’obiettivo di realizzare forme sintetiche di mRNA, quindi create in laboratorio, che contengano istruzioni per produrre proteine che aiutino l’organismo a guarire.

Nei laboratori di Moderna sono impiegate circa 800 persone, che da anni lavorano per sviluppare farmaci e vaccini per trattare malattie come il cancro, patologie cardiache e infezioni dovute a virus e batteri. Le notizie sulla rapida diffusione del coronavirus in Cina e poi in diversi altri paesi del mondo, compresa l’Italia, hanno indotto i responsabili dell’azienda a interessarsi al problema e a valutare la produzione di un vaccino sperimentale.

Come racconta il Wall Street Journal, tutto è iniziato intorno al 10 gennaio, quando i ricercatori cinesi sono riusciti a riprodurre la sequenza genetica del coronavirus, condividendo la notizia e i dati con il resto della comunità scientifica in tutto il mondo. Tra i tanti che l’hanno analizzata, c’erano anche Moderna e il National Institute of Allergy and Infectious Disease (NIAID) di Bethesda (Maryland), centro di ricerca pubblico statunitense che si occupa dello studio delle malattie infettive.

Dopo una prima analisi, i ricercatori di Moderna hanno identificato una sezione della sequenza genetica del coronavirus promettente per indurre una reazione immunitaria nell’organismo che la riceve, senza che però si sviluppino i sintomi della malattia (che in alcuni casi possono essere gravi e letali). Moderna e NIAID si sono messi d’accordo: la prima avrebbe provveduto a sviluppare un vaccino sperimentale, il secondo a testarlo per verificarne sicurezza ed efficacia.

La ricerca e la produzione hanno coinvolto un centinaio di impiegati di Moderna nei laboratori di Norwood, vicino alla sede di Cambridge. Hanno lavorato per settimane senza sosta, con turni nei fine settimana e di notte per fare il prima possibile. Il 7 febbraio, a poco meno di un mese dalla produzione dei primi profili genetici del coronavirus, il laboratorio aveva già completato la produzione di 500 fiale del vaccino sperimentale. Nelle due settimane successive, i ricercatori hanno analizzato il risultato e verificato sterilità e sicurezza di ogni fiala.

Il lotto è stato consegnato a NIAID questa settimana e il direttore dell’Istituto, Anthony Fauci, stima che il primo test clinico con 20-25 volontari sani possa essere avviato entro la fine di aprile, una volta ultimati ulteriori controlli sul vaccino. Il primo test su esseri umani comporterà due somministrazioni per volontario, e avrà lo scopo di verificare la sicurezza del prodotto e la sua capacità di indurre una risposta immunitaria. Quest’ultima dovrà poi essere valutata per verificare che sia efficace contro il coronavirus. I risultati di questa prima fase di test dovrebbero essere pronti tra i mesi di luglio e agosto.

Se le prime verifiche saranno positive, si procederà poi con un secondo test che coinvolgerà diverse centinaia di persone, probabilmente in aree in cui il coronavirus è ormai particolarmente diffuso, come la Cina. Questa seconda fase richiederà tra i sei e gli otto mesi per essere completata e – se sarà positiva – condurrà alle ultime verifiche, effettuate dalle autorità per la sicurezza dei farmaci, in vista della diffusione su larga scala del vaccino. Salvo accelerazioni nelle procedure per ottenere i permessi, l’intero processo potrebbe richiedere circa un anno.

Il successo del nuovo vaccino sperimentale non è per nulla scontato e ne sono consapevoli gli stessi ricercatori di Moderna. Per quanto siano fiduciosi, potrebbero avere scelto una sezione della sequenza genetica poco adatta allo scopo di causare una risposta immunitaria, mancando quindi l’obiettivo di indurre l’organismo a produrre i giusti anticorpi e a serbarne memoria nel caso di un’infezione da coronavirus. È comunque un rischio che vale la pena assumersi, considerata la velocità con cui si sta diffondendo la COVID-19 e gli effetti che potrebbe avere sulle fasce più deboli della popolazione (anziani e individui in condizioni di salute compromesse).

La rapidità con cui Moderna ha realizzato un primo vaccino sperimentale dimostra come le innovazioni nel settore abbiano permesso di accorciare i tempi per questo tipo di ricerche. Nel caso della SARS, per esempio, la ricerca di un vaccino richiese molto più tempo e fu poi sostanzialmente abbandonata, dopo che fu possibile contenere l’epidemia. Con il coronavirus le cose sembrano andare diversamente: i casi verificati di contagio hanno interessato ormai quasi 80mila persone e, secondo gli epidemiologi, il numero di nuovi contagiati continuerà ad aumentare significativamente.

Secondo Fauci, la diffusione del coronavirus potrebbe ridursi durante la stagione calda, per poi tornare a essere rilevante il prossimo inverno. Al momento non si esclude inoltre che la COVID-19 possa diventare una malattia stagionale, quindi ricorrente come avviene con l’influenza. In questo caso un vaccino potrebbe essere molto utile per tutelare gli individui più a rischio, proprio come si fa con il vaccino influenzale.

Moderna non è comunque l’unica azienda al lavoro per produrre un vaccino contro il coronavirus. Da settimane ci lavorano diverse altre società farmaceutiche, come Inovio Pharmaceuticals e Johnson & Johnson. Man mano che l’epidemia progredisce, inoltre, scienziati e centri di ricerca ottengono nuovi dati utili per capire caratteristiche e comportamento del coronavirus.

Mentre si cerca di contenere l’infezione, in modo da ridurre il rischio di nuovi contagi da COVID-19, le autorità sanitarie a cominciare dall’OMS auspicano che entro un anno possa essere disponibile un primo vaccino, che aiuterebbe molto a ridurre la letalità del coronavirus. Anche per questo motivo, ogni tentativo è importante, per quanto porti con sé molte incertezze come nel caso del nuovo vaccino sperimentale di Moderna.