L’idrossiclorochina previene il coronavirus?

Donald Trump dice di prenderla da quasi due settimane, ma a oggi non ci sono indicazioni convincenti sulla sua efficacia per evitare l’infezione.

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha detto di avere iniziato ad assumere l’idrossiclorochina – un farmaco solitamente prescritto per la malaria – come “terapia preventiva” contro il coronavirus. Ha detto di assumerla ogni giorno da una settimana e mezza e di sentirsi bene, aggiungendo di averne sentito parlare bene da diverse persone. Trump ha promosso in vari modi l’uso dell’idrossiclorochina negli ultimi due mesi, nonostante a oggi non ci siano prove scientifiche convincenti circa la sua utilità nei trattamenti contro la COVID-19 o per prevenirla, senza parlare dei suoi potenziali effetti collaterali.

Trump aveva citato per la prima volta l’idrossiclorochina a marzo, nel corso di una delle sue conferenze stampa che teneva quotidianamente per aggiornare sull’epidemia negli Stati Uniti e le misure assunte dal suo governo. In un’occasione aveva definito il farmaco un “punto di svolta” contro la pandemia, anche se numerosi medici e i suoi stessi esperti scientifici avessero invitato a mantenere grandi cautele circa l’utilità del medicinale.

Da circa metà marzo l’idrossiclorochina ha ottenuto notevoli attenzioni soprattutto negli Stati Uniti, con esponenti politici tra i conservatori che in modo più o meno diretto ne hanno consigliato l’uso, sia per trattare la COVID-19 sia come una sorta di trattamento preventivo per ridurre il rischio di contrarre il coronavirus. Lo hanno fatto in mancanza di basi scientifiche concrete, senza attendere i risultati delle sperimentazioni che sono ancora in corso in numerosi paesi, compresa l’Italia.

L’idrossiclorochina è in circolazione da diversi decenni: in Italia e in altri paesi è nota soprattutto con il nome commerciale Plaquenil ed è impiegata per trattare la malaria e malattie autoimmuni, come il lupus e l’artrite reumatoide. Si è iniziato a parlare del suo impiego contro la COVID-19 nei primi giorni di febbraio, in seguito a un test di laboratorio che aveva evidenziato la capacità dell’idrossiclorochina di impedire al coronavirus di legarsi alle cellule, primo passaggio per poterle poi sfruttare per replicarsi. Il test era stato eseguito in vitro, quindi non in un organismo, e aveva alcuni limiti nella sua realizzazione.

Nelle settimane seguenti l’idrossiclorochina era stata impiegata in combinazione con un antibiotico, l’azitromicina, in alcuni paesi con qualche risultato nei pazienti. I test clinici erano però stati svolti su un numero limitato di persone e senza gruppi di controllo, cioè con pazienti sottoposti ad altre terapie o con un placebo (un finto farmaco). Una ricerca pubblicata in Francia era circolata abbastanza, prima di essere ridimensionata nella sua portata in seguito alla scoperta di diverse imprecisioni.

Uno studio condotto in Cina aveva invece incluso un gruppo di controllo, rilevando qualche miglioramento nei pazienti con casi poco gravi di COVID-19. Anche in quel caso la ricerca aveva comunque coinvolto un numero limitato di persone, poco più di 60 pazienti, ai quali erano stati somministrati diversi altri farmaci oltre l’idrossiclorochina.

Uno dei potenziali benefici dell’idrossiclorochina deriva dalla sua capacità di ridurre la risposta immunitaria dell’organismo, evitando che diventi sproporzionata rispetto all’infezione causata dal coronavirus. In alcuni casi, infatti, il sistema immunitario reagisce in modo piuttosto aggressivo al coronavirus, causando danni nei tessuti cellulari soprattutto a livello polmonare. Nelle terapie intensive vengono quindi impiegati farmaci per modulare questa reazione, ma con esiti ancora difficili da valutare nel loro complesso.

L’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) ha approvato da inizio aprile l’impiego sperimentale dell’idrossiclorochina per i pazienti con COVID-19, così come ha fatto per diversi altri farmaci sviluppati negli anni passati per altre malattie e che potrebbero rivelarsi utili anche contro il coronavirus. La somministrazione deve avvenire sotto stretto controllo medico, perché come segnalato anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’idrossiclorochina può causare reazioni avverse anche gravi. L’impiego del farmaco dovrebbe essere inoltre limitato a circa una settimana, con una valutazione dei suoi effetti prima di proseguire o sospendere il trattamento.

L’idrossiclorochina deve essere somministrata con grande attenzione nelle persone con altri problemi di salute, come aritmie cardiache, malattie renali e problemi alla retina. In diversi pazienti il suo impiego comporta inoltre effetti indesiderati come diarrea, nausea, irritazioni cutanee e cambiamenti di umore. La sua assunzione insieme all’azitromicina comporta ulteriori rischi.

A oggi non ci sono prove che l’idrossiclorochina possa in qualche modo prevenire un’infezione da coronavirus. Alcune ricerche sono in corso per verificare se la somministrazione a persone che vivono a contatto con persone positive al virus, e potenzialmente contagiose, possa ridurre il rischio di contrarre il coronavirus. Saranno necessarie ancora settimane prima di avere risultati concreti. L’assunzione preventiva di un farmaco di questo tipo allo stato attuale delle conoscenze è sconsigliata dalla maggior parte dei medici.

Cosa vuol dire isolare un virus

E perché è importante il risultato ottenuto dall’Istituto Nazionale Malattie Infettive “Lazzaro Spallanzani”, anche se non è arrivato per primo.

Domenica 2 febbraio, l’Istituto Nazionale Malattie Infettive “Lazzaro Spallanzani” ha annunciato di avere isolato il nuovo coronavirus (2019-nCoV), che ha causato oltre 360 morti in Cina e 17mila casi di contagio. Agenzie di stampa e media italiani hanno ampiamente ripreso la notizia, parlando dell’Italia come del “primo paese” ad avere isolato il virus. In realtà lo stesso risultato era stato ottenuto nelle settimane scorse da diversi altri centri di ricerca, a cominciare da quelli cinesi. Esserci arrivati prima o dopo non toglie comunque nulla all’importanza del risultato ottenuto dallo Spallanzani, che aiuterà i ricercatori a comprendere meglio le caratteristiche del coronavirus e a testare farmaci e vaccini per contrastarlo.

Che cos’è un virus?
Per farsi un’idea di cosa significhi isolare e sequenziare un virus, conviene fare un breve ripasso di biologia. I virus sono entità biologiche piuttosto semplici e si comportano come i parassiti: hanno cioè bisogno di un altro organismo per moltiplicarsi e prosperare. Le modalità di sviluppo e di trasmissione dei virus variano molto a seconda delle specie, ma in linea di massima seguono questo schema: si intrufolano nelle cellule, ingannando le difese delle loro membrane, e successivamente iniettano il loro codice genetico per modificare il comportamento della cellula e sfruttarla per replicarsi.

La presenza del virus innesca una risposta immunitaria da parte dell’organismo infettato (negli animali), che di solito consente di eliminarlo. Il sistema immunitario serba poi memoria dell’incontro, in modo da impedire al virus di fare nuovamente danni; i vaccini consentono di acquisire questa memoria senza che ci si debba ammalare. Alcuni virus sono però più pericolosi di altri e riescono a causare infezioni croniche, come avviene per esempio con l’HIV.

Cosa vuol dire isolare un virus?
Lo scopo dell’isolamento è ottenere la possibilità di produrre grandi quantità dello stesso virus, in modo da poterlo poi studiare o sfruttare per verificare il modo in cui reagisce con alcuni farmaci.

Un virus viene “isolato” quando è separato dall’organismo infetto iniziale. Semplificando: si prelevano campioni (sangue, tessuto cellulare, urina o altro) dall’individuo interessato e li si trasferiscono in laboratorio, avendo cura che questi non subiscano contaminazioni. Una prima attività riguarda la “pulizia” del campione, un trattamento essenziale per escludere funghi e batteri, che interferirebbero con l’attività virale.

Come abbiamo visto, i virus hanno bisogno delle cellule per moltiplicarsi, a differenza per esempio dei batteri che producono e sviluppano colonie autonomamente. I ricercatori devono quindi trovare il modo di “coltivare” il virus, cioè di indurlo a replicarsi. Possono farlo con tecniche in vivo o in vitro: nella prima si utilizza un intero organismo vivente (come un animale o una pianta), mentre nella seconda tutto avviene su piastre e provette di vetro.

In vitro
Diversi tipi di cellule possono essere impiegati per far crescere e moltiplicare i virus, da un campione di partenza. Si parte di solito da cellule prelevate da un animale, che vengono preparate in una coltura che viene poi messa in contatto con il campione virale. Questa tecnica avvia un fenomeno (adsorbimento) attraverso il quale il virus può intrufolarsi nelle cellule o inserire il suo codice genetico, infettarle e indurle a produrre un gran numero di sue nuove copie.

In vivo
Di solito per la tecnica in vivo si utilizzano embrioni in fase di sviluppo, per esempio nel caso del vaccino influenzale si procede utilizzando le uova fecondate (lo avevamo raccontato estesamente qui). L’embrione o l’intero animale fanno da incubatore per la replicazione virale, utile poi per studiare il virus e le sue caratteristiche.

Studio del virus
Dalle colture in vitro o in vivo si possono ottenere campioni, per poter osservare su una scala più grande gli effetti del virus. Di solito l’osservazione inizia al microscopio per valutare i danni causati dall’infezione. Le cellule colonizzate mostrano anormalità (“effetto citopatico”) come cambiamenti nella forma, anomalie nelle loro membrane e nei nuclei.

E che cos’è il sequenziamento?
In biologia molecolare, il sequenziamento serve per avere una trascrizione dell’ordine delle basi (adenina, citosina, guanina e timina) che fanno parte del frammento di DNA che si sta analizzando (nel caso dei virus è molto spesso l’RNA, una versione semplificata). Nella sequenza sono codificati i geni, e le istruzioni per quando e come devono essere espressi (espressione genica). In generale, se ottieni la sequenza puoi capire il come e il perché della vita di un organismo. Di alcune porzioni di DNA conosciamo già le funzioni, quindi i ricercatori possono mettere a confronto la sequenza che hanno ottenuto con quelle già conosciute, in modo da ricostruire almeno in parte cosa è codificato nel DNA.

Per sequenziare un virus, si esamina un campione prelevato da un individuo infetto e se ne effettua poi l’analisi. Il problema è che in queste condizioni il materiale genetico del virus è confuso con quello della cellula che è stata colonizzata. I progressi raggiunti negli ultimi anni hanno consentito di attenuare il problema e di accelerare i processi di sequenziamento, attraverso i virus isolati.

Le prime righe del sequenziamento del nuovo coronavirus:

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Che cosa hanno fatto allo Spallanzani?
Le ricercatrici Concetta Castilletti, Francesca Colavita e Maria Rosaria Capobianchi nei giorni scorsi si sono messe al lavoro sui campioni prelevati da uno dei due pazienti cinesi, ricoverati presso lo Spallanzani dopo che avevano mostrato sintomi da infezione da nuovo coronavirus. I campioni sono stati poi utilizzati per isolare il virus e coltivarlo, seguendo le procedure di sicurezza per evitare contagi.

Dopo qualche giorno, il gruppo di ricerca ha riscontrato l’effetto citopatico, a conferma del successo nella coltivazione del virus. Non era un risultato scontato, visto che il tasso di successo è di solito intorno al 10 per cento, cosa che rende necessaria la preparazione di più colture alle giuste condizioni ambientali. In Italia è stato inoltre sequenziato il nuovo coronavirus, trovando caratteristiche genetiche analoghe a quelle già rilevate in precedenza da altri centri di ricerca.

Chi ha sequenziato per primo il nuovo coronavirus?
Le prime polmoniti sospette sono state riscontrate a Wuhan, la città cinese epicentro della crisi sanitaria, alla fine del 2019, inducendo diversi centri di ricerca in Cina a effettuare controlli di laboratorio sui pazienti interessati. Il 10 gennaio, a poco più di un mese dal primo caso di polmonite, i ricercatori cinesi hanno annunciato di avere sequenziato il nuovo coronavirus, e hanno reso pubblici i risultati della loro analisi. La rapidità è stata notevole, se si considera che con il coronavirus che causa la SARS i tempi furono molto più lunghi, a testimonianza dei progressi raggiunti negli ultimi anni.

Nelle settimane successive, centri di ricerca in Cina e in altre parti del mondo hanno sequenziato campioni di coronavirus prelevati da altri pazienti, ottenendo informazioni genetiche su una ventina di casi. Il 31 gennaio scorso, l’Istituto Pasteur della Francia ha annunciato di avere isolato il nuovo coronavirus, da campioni prelevati da un paziente cinese infetto ricoverato in un ospedale francese.

OK, ma quindi la storia di essere arrivati primi?
Domenica 2 febbraio, il ministro della Salute Roberto Speranza ha annunciato con grande enfasi, nel corso di una conferenza stampa, l’isolamento del nuovo coronavirus da parte dello Spallanzani, ma non ha detto che l’Italia avesse raggiunto per prima questo risultato. Il gruppo di ricerca ha poi esposto i risultati delle attività svolte presso l’istituto, senza intestarsi alcun primato.

Nel comunicato stampa diffuso dall’Istituto si parlava invece di “primi in Europa”: l’ufficio stampa ha spiegato al Post che il testo era stato scritto nella serata di venerdì 31 gennaio, senza essere al corrente dell’annuncio dell’Istituto Pasteur.