Come si rischia il contagio da coronavirus

Capirlo è fondamentale per decidere come e in che misura ridurre le restrizioni per tornare a lavorare, o a uscire a cena al ristorante.

Erin Bromage è un biologo, si occupa di immunologia e insegna presso l’University of Massachusetts, Dartmouth, negli Stati Uniti. Da qualche giorno un suo articolo divulgativo dedicato alle modalità di diffusione del coronavirus ha ottenuto grandi attenzioni e apprezzamenti, compresi quelli del New York Times, per avere spiegato in modo accessibile quali siano i rischi nell’allentare le restrizioni che diversi governi hanno imposto per rallentare la diffusione del contagio. Il suo post è stato visto più di 10 milioni di volte e aiuta a farsi meglio un’idea non solo di cosa potrebbe accadere, una volta attenuate le limitazioni, ma anche del perché alcuni luoghi di aggregazione sono più a rischio di altri.

Sulla base delle indagini epidemiologiche condotte in diversi paesi, sappiamo che il principale luogo di contagio sono le abitazioni, dove un infetto contagia le altre persone vivendo a stretto contatto con loro. È invece più complicato determinare con certezza come sia stata contagiata la prima persona infetta. Molti ritengono che il luogo di principale contagio possa essere il supermercato, un ambiente condiviso con molte persone e con numerose possibilità di toccare superfici che potrebbero essere contaminate. Bromage spiega invece che i dati dicono quasi sempre un’altra cosa, con diversi altri contesti più a rischio, e che dipendono dalle modalità di diffusione del coronavirus.

Come si diventa infetti
In generale, un contagio da virus si verifica quando si viene esposti a una certa dose di particelle virali (virioni), cioè i virus nella loro forma al di fuori degli organismi. Non è semplice stabilire quante particelle siano necessarie per avviare un’infezione, ma si possono fare stime abbastanza accurate. Per i coronavirus che causano la MERS e la SARS (una malattia respiratoria causata da un virus con cose in comune con l’attuale coronavirus) si stima che siano necessarie un migliaio di particelle virali, e che lo stesso valga per il coronavirus che causa la COVID-19. È una stima ritenuta affidabile, ma che richiederà ulteriori ricerche e approfondimenti per essere confermata.

Ci sono molti modi in cui si può venire a contatto con mille particelle virali: possono essere inalate se qualcuno starnutisce a breve distanza da noi, oppure se ci tocchiamo la faccia dopo avere passato le mani su superfici sulle quali era presente il coronavirus. Si può rimanere infetti sia nel caso in cui si venga esposti a mille particelle in una volta sola sia nel caso in cui – in breve tempo – si ripetano operazioni che portano a un accumulo di virioni, fino a superare la soglia che rende possibile l’infezione vera e propria.

Sulla base degli studi realizzati finora, Bromage scrive che i bagni possono essere considerati tra i luoghi più a rischio per la diffusione del coronavirus: sono pieni di superfici che vengono inevitabilmente toccate da chi li utilizza, e sulle quali si potrebbero quindi accumulare molti virioni. La loro diffusione avviene sia tramite le superfici sia tramite le goccioline (droplet) che si sollevano in particolari circostanze, per esempio quando si attiva lo sciacquone. Per questo viene consigliato di utilizzare i bagni pubblici con grande cautela, in attesa di avere valutazioni del rischio più precise.

Respiro, tosse e starnuti
Con un solo colpo di tosse si producono fino a 3mila droplet che possono essere proiettati a diversi metri di distanza da chi tossisce, a una velocità di circa 75 chilometri orari. Le gocce più grandi ricadono quasi subito al suolo, perché più pesanti, mentre le altre possono rimanere sospese più a lungo e quindi diffondersi più facilmente nei luoghi chiusi, dove c’è un minore ricambio di aria.

Nel caso di uno starnuto, i droplet prodotti possono essere circa 30mila, con una velocità che in alcuni casi supera i 300 chilometri orari. A differenza della tosse, la dimensione delle goccioline è più piccola e questo contribuisce a far coprire loro distanze più grandi.

Bromage scrive che i droplet prodotti con la tosse o uno starnuto da una persona infetta possono contenere fino a 200 milioni di particelle virali. È bene specificare che i virioni viaggiano nelle gocce di saliva e muco proiettate con tosse, starnuti e (in misura molto minore) con il respiro: il coronavirus non circola di suo liberamente nell’aria, si trova in sospensione solo nel caso in cui qualcuno lo abbia emesso e ci rimane per poco tempo. È inoltre difficile stabilire quante persone siano contagiate respirando i droplet, rispetto a quelle che diventano infette dopo avere toccato superfici contaminate ed essersi poi portate le mani alla faccia.

Quando espelliamo l’aria con la respirazione produciamo tra i 50 e 5mila droplet a velocità molto inferiori rispetto a quelli prodotti con tosse e starnuti: ricadono rapidamente a terra, senza rimanere in sospensione. Inoltre, con l’espirazione non espelliamo quantità significative di materiale dalle vie respiratorie profonde, dove si accumulano le maggiori riserve del coronavirus. La carica virale dei respiri è quindi molto bassa, almeno basandosi sull’esperienza con altri virus come quelli dell’influenza stagionale (che non hanno nulla a che fare con l’attuale).

In una stanza
Nel caso in cui una persona starnutisca o tossisca emettendo 200mila particelle virali, c’è chiaramente un rischio maggiore per un ipotetico interlocutore di ricevere in un colpo solo un migliaio di virioni sufficienti per portare a un contagio. Seppure minore, il rischio rimane anche se ci si trova in un altro punto della stanza rispetto a chi ha starnutito: i droplet che ha prodotto restano in sospensione nell’aria per qualche minuto e potrebbero essere respirati ugualmente da un’altra persona.

Se si entra in una stanza di piccole dimensioni, dove una persona positiva al coronavirus ha appena starnutito, c’è quindi il rischio di rimanere infetti dopo avere fatto qualche respiro. Questa eventualità diventa molto più remota nel caso in cui la persona infetta respiri normalmente, ma non tossisca o starnutisca: in questo caso non sarebbero sufficienti pochi minuti per ricevere la quantità minima di virioni per avviare l’infezione, ma fino a un’ora ipotizzando che in media l’infetto emetta 20 particelle virali al minuto e che per assurdo siano tutte inalate.

Nel caso di una riunione di lavoro, il rischio potrebbe essere più alto, perché parlando si emettono fino a dieci volte i droplet che si emettono respirando in silenzio. Le particelle virali sarebbero circa 200 al minuto e potrebbero quindi essere sufficienti alcuni minuti per infettare il proprio interlocutore (se entrambi non adottassero precauzioni). Per questo chi si occupa del tracciamento dei contatti dovrebbe sempre chiedere ai nuovi infetti non solo un elenco delle persone viste nei giorni precedenti, ma anche il tempo trascorso con loro e l’eventualità di avere parlato per almeno dieci minuti con alcuni privi di protezioni.

Quando si è contagiosi
L’attuale coronavirus è piuttosto contagioso e parte della sua capacità di diffondersi facilmente è dovuta al fatto che in molti casi comporta sintomi lievissimi, al punto da non rendersi conto di essere malati. Gli infetti con pochi o nessun sintomo mantengono quindi una vita sociale attiva, e inconsapevolmente diventano la fonte di contagio per molte altre persone. Alcune ricerche hanno inoltre rilevato come molti infetti fossero contagiosi già nei cinque giorni precedenti all’insorgenza di chiari sintomi da COVID-19.

Le persone infette non emettono sempre la stessa quantità di particelle virali: la loro contagiosità varia a seconda della carica virale, cioè di quanto sia diffusa l’infezione nel loro organismo. Il picco nella capacità di diffondere il coronavirus corrisponde di solito ai momenti poco prima di sviluppare chiari sintomi, e questo spiega perché molti infetti inconsapevoli contagino altre persone prima di praticare l’isolamento, quando scoprono di essere infetti perché si sono ammalati.

I luoghi del contagio
Tenendo a mente tutto questo, e il fatto che molti dettagli sulla trasmissione del coronavirus siano ancora da approfondire, si possono fare valutazioni sul rischio di contagio a seconda dei luoghi e delle circostanze. Bromage segnala come alcuni fatti di cronaca delle ultime settimane aiutino a farsi un’idea sui luoghi a più alto rischio.

Dopo le case di riposo, in cui vivono persone anziane deboli e quindi più esposte alla COVID-19, i casi di contagio più consistenti sono avvenuti nelle carceri, nei luoghi di culto e sul posto di lavoro. Più in generale, come prevedibile, in luoghi chiusi, con uno scarso ricambio di aria e con un’alta concentrazione di persone.

Negli Stati Uniti il caso più emblematico delle dinamiche di contagio è quello degli impianti dove si macellano e selezionano le carni a scopo alimentare. Gli operatori trascorrono ore in ambienti rumorosi dove si deve parlare ad alta voce per comunicare, in stanze refrigerate e con un certo grado di umidità, che favoriscono la conservazione delle particelle virali. In 23 stati sono finora stati rilevati 115 casi di contagio in altrettanti stabilimenti, con almeno 5mila persone contagiate e 20 morti rilevati.

Ristoranti
I primi studi epidemiologici sulla diffusione del coronavirus in ambienti chiusi e molto frequentati, come i ristoranti, non sono promettenti. Bromage cita un’analisi realizzata sulla base del tracciamento dei contatti di chi era stato a cena con una persona, che in seguito aveva scoperto di essere infetta.

Come mostra lo schema, la persona infetta (A1) era a tavola con 9 amici per una cena durata circa 90 minuti. A1 non aveva sintomi, quindi rilasciava nell’aria i droplet con la normale respirazione, e questi erano poi trasportati da destra a sinistra (rispetto all’orientamento dello schema) dal sistema di ventilazione del ristorante. Circa la metà delle persone a tavola con l’infetto ha sviluppato i primi sintomi della COVID-19 entro una settimana dalla cena.

Sono rimaste infettate anche tre persone su quattro in un tavolo adiacente (B), che si trovava sottovento, rispetto al tavolo di A1 e al flusso d’aria generato dalla ventilazione del locale. Inoltre, altre due persone sono rimaste infette al tavolo sopravento (C), forse a causa di alcune turbolenze create dal sistema di ventilazione. I tavoli E ed F erano invece fuori portata, senza un’esposizione diretta al flusso d’aria del sistema di ventilazione, e nessuno dei commensali ha poi sviluppato sintomi.

Lavoro
Anche sul posto di lavoro i rischi possono essere consistenti. Bromage cita uno studio realizzato per ricostruire una catena dei contagi all’interno di un call center, e riassunto in questo schema.

Una sola persona infetta è andata al lavoro condividendo uno spazio con altri 216 impiegati. Nel corso di una settimana, 94 di questi sono stati contagiati (le sedie azzurre) e tutti tranne due hanno poi sviluppato sintomi della COVID-19. Dallo schema è evidente come il contagio abbia interessato quasi esclusivamente le postazioni da un lato dell’ufficio, a conferma che la condivisione di uno stesso spazio a poca distanza da un infetto possa fare la differenza.

Droplet e superfici
Sia nel caso del ristorante sia in quello del call center i droplet hanno sicuramente avuto un ruolo centrale nella diffusione del contagio, ma non possiamo stabilire con certezza se siano stati respirati direttamente. Entrambi i contesti prevedevano situazioni in cui si toccavano molti oggetti e superfici (bicchieri, posate, bottiglie, cestini del pane, tastiere del computer, microfoni, cuffie, maniglie e altri utensili, per citarne solo alcuni) sui quali potevano essersi depositati i droplet o per via diretta, o dopo che l’infetto si era tossito in una mano prima di toccare qualcosa.

Cerimonie e feste
Bromage cita poi un caso particolare di Chicago, per dimostrare come si possa avviare facilmente una catena dei contagi.

Bob (nome di fantasia) non sapeva di essere positivo al coronavirus e ha condiviso con due membri della sua famiglia alcuni piatti, presi con il take away, durante una cena durata circa tre ore. Il giorno dopo, Bob è andato a un funerale, ha abbraccio diversi membri della famiglia e altri conoscenti per esprimere le sue condoglianze. Entro quattro giorni entrambi i familiari con cui aveva condiviso il pasto si sono ammalati. Bob intanto ha partecipato a una festa di compleanno con nove altre persone, durata circa tre ore. Sette dei partecipanti si sono poi ammalati.

Solo qualche giorno dopo questi eventi Bob ha iniziato ad avere sintomi, tali da rendere necessario un suo trasferimento in ospedale, dove è morto dopo un breve ricovero. Ma la sua catena del contagio è proseguita.

Tre persone che avevano partecipato con lui alla festa di compleanno sono andate in chiesa, senza sapere di essere state contagiate, e rimanendo per diverso tempo a stretto contatto con altri fedeli hanno diffuso ulteriormente il coronavirus.

Stando al tracciamento dei contatti svolto sul caso di Chicago, Bob è stato da solo responsabile del contagio di 16 persone con età compresa tra 5 e 86 anni: tre di queste sono morte. (Naturalmente nelle catene del contagio intervengono altre variabili, che potrebbero avere contribuito a determinare questo esito.)

Semplice
I casi del ristorante, del call center e di Bob mostrano – insieme a tanti altri – quanto sia tutto sommato semplice che si diffonda il coronavirus. Tutti i casi citati hanno in comune di essersi verificati in luoghi al chiuso, con persone a stretto contatto e in contesti in cui si parla a voce alta, si canta, si urla o ci si passano oggetti gli uni con gli altri. Spiega anche perché i contagi siano più frequenti in casa, al lavoro, sui mezzi pubblici e nei ristoranti, rispetto ai supermercati dove tutto sommato ci sono meno interazioni dirette tra le persone.

Gli spazi offerti da molti supermercati sono inoltre ampi, i ricambi d’aria frequenti e il numero di clienti limitato, grazie alla pratica degli accessi contingentati. La combinazione di questi fattori rende il rischio di contagio basso, mentre rimane più rilevante per chi nei supermercati ci lavora.

Riaperture
La prospettiva di riprendere pienamente le attività lavorative e di ripristinare quelle dove avviene buona parte delle nostre interazioni sociali, come ristoranti e locali, non lascia tranquilli gli epidemiologi proprio per i maggiori rischi. Nei luoghi chiusi è più complicato praticare il distanziamento sociale e inoltre iniziano a esserci elementi a sufficienza per ritenere che la compresenza con infetti inconsapevoli, anche a metri di distanza, faccia aumentare considerevolmente il rischio di essere contagiati.

Il distanziamento fisico, scrive Bromage, è sostanzialmente pensato per ridurre l’esposizione tra contagiosi e sani negli ambienti esterni o per i brevi periodi in ambienti al chiuso, dove il poco tempo è la chiave: minore è, minore sarà il rischio di accumulare una quantità di virus tale da sviluppare un’infezione.

Con l’attenuazione delle misure restrittive sarà molto importante fare valutazioni attente degli ambienti chiusi in cui si lavora, o si incontrano gli amici. I fattori da tenere in considerazione devono essere:

• le loro dimensioni rispetto al numero di persone che li frequentano;
• la presenza di adeguati sistemi per il ricambio d’aria;
• il tempo di permanenza negli ambienti potenzialmente a rischio.

Soprattutto i datori di lavoro dovrebbero tenere in considerazione questi fattori, ripensando se necessario l’organizzazione degli spazi lavorativi che mettono a disposizione dei loro dipendenti. Un ufficio con un open space, per esempio, deve essere gestito in modo da ridurre il rischio, quindi con adeguati sistemi di aerazione, pannelli divisori e senza trascurare le pratiche del distanziamento fisico. Ambienti lavorativi che richiedono interazioni dirette costanti, magari in circostanze di alta rumorosità e in cui è necessario urlare per farsi sentire, sono da considerarsi più a rischio. Uno spazio lavorativo ben ventilato, con poche persone è invece a rischio più basso.

Infine, Bromage consiglia di rivedere parte delle proprie preoccupazioni per le interazioni all’aperto. Il passaggio nelle proprie vicinanze di un contagioso non implica che si venga contagiati, anche perché come abbiamo visto il processo deriva dalla quantità di particelle virali e dal loro accumulo in un breve periodo di tempo. Il rischio potrebbe essere un po’ più alto nel caso del passaggio di una persona che fa attività motoria correndo, pratica attraverso la quale espira sicuramente più droplet, ma il tempo di esposizione è comunque molto limitato considerata la velocità di un corridore.

Con un po’ di pazienza e con le buone pratiche si possono ridurre sensibilmente i rischi di contagio: mai toccarsi la faccia con le mani sporche, praticare il distanziamento fisico, evitare i luoghi affollati, ridurre le interazioni sociali e lavarsi di frequente le mani con il sapone, per almeno 20 secondi. Sul posto di lavoro, infine, si devono richiedere ai datori tutte le protezioni necessarie e gli accorgimenti per ridurre il rischio e garantire la propria sicurezza.

Le mutazioni del coronavirus

È vero che cambia – ed è normale – ma non ci sono ancora elementi per dire che stia diventando più pericoloso, o che possa succedere.

Nell’ultima settimana diversi giornali hanno ripreso uno studio realizzato negli Stati Uniti, sostenendo che abbia portato alla scoperta di un “nuovo ceppo” del coronavirus, più diffuso di quello originario e tale da avere reso il virus più contagioso. In realtà la ricerca citata – realizzata preso il Los Alamos National Laboratory (New Mexico) – utilizza toni cauti e non parla di un nuovo ceppo in quei termini, ma di una mutazione del coronavirus che ha iniziato a diffondersi in Europa all’inizio di febbraio e che si è poi probabilmente diffusa negli Stati Uniti, e che per questo non deve essere sottovalutata.

Lo studio statunitense è stato diffuso nella sua forma preliminare, e non è stato quindi ancora sottoposto a una revisione alla pari da altri scienziati né è stato pubblicato su una rivista scientifica, quindi dovrebbe essere preso in considerazione con qualche cautela aggiuntiva rispetto a quelle già necessarie per le normali ricerche. Secondo diversi ricercatori, che non hanno partecipato allo studio, le conclusioni prospettate sono plausibili ma non rappresentano comunque ciò che è avvenuto finora con la diffusione dell’epidemia.

Il punto centrale per molti ricercatori, come hanno spiegato sull’Atlantic, è che a oggi non ci sono elementi chiari per sostenere che esistano diversi “ceppi” del coronavirus, anche se spesso sui giornali abbiamo letto il contrario. La confusione deriva dal fatto che sui media si confondono quasi sempre mutazioni e ceppi, utilizzando i due termini come se fossero sinonimi.

Mutazioni
Semplificando molto, un virus entra in un organismo e ne sfrutta poi le cellule per replicarsi, cioè per creare nuove copie di se stesso che provvederanno a legarsi ad altre cellule per fare la stessa cosa. Questo meccanismo non è molto preciso e può portare ad alcuni errori nella fase in cui il codice genetico del virus viene trascritto per farne una copia, un po’ come avviene quando si ricopia un testo e inavvertitamente si scrive un refuso. È nell’ordine delle cose, succede di continuo in natura nei processi di replicazione del codice genetico. Il risultato di questi refusi sono mutazioni, quasi sempre innocue e che si trasmettono alle generazioni successive, accumulandosi a quelle nuove prodotte nei processi di replicazione seguenti.

Queste imprecisioni determinano il progressivo allargamento dell’albero genealogico di un virus, con nuovi rami che però non implicano che si sviluppi un nuovo “ceppo virale”. I virologi riservano questa definizione per una nuova generazione di virus che presenta differenze marcate e significative rispetto alle precedenti, soprattutto negli esiti delle sue attività. Anche se non tutti concordano sul limite oltre il quale si possa parlare di nuovo ceppo, vengono tenuti in considerazione criteri come: modificata capacità del virus di diffondersi, aumento della sua capacità di causare una malattia (virulenza), nuova resistenza ai trattamenti farmacologici che prima riuscivano a tenerlo sotto controllo, aumentata capacità di eludere le difese immunitarie dell’organismo.

Una o più mutazioni possono influire sulle caratteristiche che abbiamo appena visto, ma non necessariamente in modo significativo e al punto da sostenere che si sia prodotto un nuovo ceppo virale. E questa è la cosa più importante di tutte, quando si parla di modifiche che avvengono nella struttura del virus, man mano che produce nuove generazioni.

Velocità
Ci sono virus che hanno una spiccata tendenza a produrre nuovi ceppi, attraverso mutazioni che si rivelano quasi sempre significative. È il caso dei virus che causano l’influenza stagionale: in poco tempo mutano al punto da cambiare buona parte della configurazione delle proteine sulla loro superficie, apparendo quindi diversi al nostro sistema immunitario, che non riesce più a riconoscerli e deve ogni volta ricominciare da capo per sviluppare le difese contro l’infezione. Questo è uno dei motivi (insieme alla durata della memoria immunitaria) per cui ci ammaliamo più volte di influenza nel corso della vita, e spiega anche perché ogni anno sia necessario sottoporsi nuovamente a un vaccino, che viene calibrato sui ceppi virali influenzali che circolano di più.

I virus influenzali sono però molto diversi dai coronavirus, che per quanto ne sappiamo tendono ad accumulare mutazioni più lentamente (secondo alcune ricerche sono fino a dieci volte più lenti nel mutare rispetto ai virus influenzali). I ricercatori consultati dall’Atlantic hanno spiegato che l’attuale coronavirus, il SARS-CoV-2, non sembra fare eccezione: è andato incontro ad alcune mutazioni, come prevedibile, ma niente di anomalo. Le varie generazioni non sembrano inoltre presentare differenze significative e, considerata la lentezza con cui muta, saranno necessari molti mesi prima di vedere cambiamenti degni di nota.

Cosa dice lo studio
Lo studio del Los Alamos National Laboratory ha preso in considerazione le mutazioni che riguardano le punte del coronavirus, sulla cui superficie c’è una proteina che elude i sistemi di sicurezza delle membrane cellulari, consentendo al virus di iniettare il suo codice genetico nelle cellule per poi replicarsi. I ricercatori hanno notato che la mutazione D614G comporta un cambiamento nelle molecole che costituiscono queste punte.

Il coronavirus nella versione senza questa mutazione (D) è quella tipica di Wuhan, la città cinese dove è iniziata la pandemia, mentre la variante con mutazione (G) è quella che è emersa a febbraio. Fino a marzo, G era poco comune in giro per il mondo, ma da aprile è diventata la versione preponderante in Europa, nel Nord America e in Australia.

I ricercatori ipotizzano (ed è bene sottolineare “ipotizzano”) che la mutazione abbia reso il coronavirus più trasmissibile e che quindi G sia man mano diventata la variante più presente, proprio perché riesce a diffondersi meglio di D. Per ammissione degli stessi ricercatori non si può però escludere che in realtà la mutazione non abbia determinato nessun cambiamento per quanto riguarda la trasmissibilità, e che quindi i coronavirus nella loro versione G si siano banalmente diffusi di più per puro caso.

E i fattori casuali possono essere molti, come sanno bene virologi ed epidemiologi sulla base dell’evoluzione di altre epidemie in passato. Non si può escludere che la versione G fosse quella portata da alcuni viaggiatori dalla Cina di ritorno in Europa, magari in Italia, dove si è poi deciso un lockdown che ha fatto sì che rimanesse in circolazione la versione con la mutazione rispetto all’altra. Il virus sarebbe poi finito in circolazione in altri paesi, dove magari era ugualmente arrivato in quella variante dalla Cina per altre vie, determinando l’epidemia in Europa e il suo arrivo negli Stati Uniti.

Caso
Nelle prime fasi che determinano un’epidemia il caso ha spesso un ruolo importante. Varianti di un virus con mutazioni che, sulla carta, li renderebbero molto più pericolosi finiscono per sparire banalmente perché uno o più individui infetti con il virus mutato restano nello stesso luogo o hanno una scarsa vita sociale. In altre circostanze, virus privi di mutazioni che li rendono più trasmissibili finiscono lo stesso per diffondersi di più, banalmente perché sono presenti in contesti con maggiore socialità o concentrazioni di individui, dovute per esempio alla densità abitativa.

Lo studio del Los Alamos National Laboratory segnala giustamente la prevalenza di una variante su un’altra, ma non fornisce elementi (perché a questo stadio ancora non ce ne sono) per concludere se G si sia diffusa di più perché comporti una maggiore trasmissibilità o solo perché uno o più eventi casuali ne abbiano determinato la prevalenza in alcune aree geografiche.

Per capirlo saranno necessari altri studi, dedicati sia all’analisi della diffusione del coronavirus nella popolazione, sia con test di laboratorio per verificare se G effettivamente sia in grado di legarsi più facilmente alle cellule, o di determinare in qualche modo tempi di replicazione più rapidi. Entrambi questi approcci richiederanno mesi di ricerche e non è comunque detto che portino a risultati chiari e condivisi.

L’opinione prevalente tra i virologi è che non sapremo ancora per diverso tempo se esistano veri e propri ceppi diversi dell’attuale coronavirus. E anche nel momento in cui si determinasse la loro esistenza, occorrerebbero poi altre analisi per verificare se alcuni ceppi comportino più rischi di altri.

Allarmismo e responsabilità
Anche a causa di alcuni prodotti culturali come film e romanzi catastrofisti, siamo abituati all’idea che la mutazione di un virus implichi sempre qualcosa di negativo. La trama di molti film sulle epidemie parte spesso da un agente infettivo tutto sommato poco pericoloso che poi muta, apparentemente dal giorno alla notte, diventando una minaccia senza precedenti. Come abbiamo visto, in realtà molti virus mutano lentamente e non sempre gli errori nella trascrizione del loro codice genetico comportano un vantaggio evolutivo, che grazie al caso consente loro di prosperare.

I virus eccessivamente aggressivi, che causano malattie molto gravi come l’Ebola, tendono a produrre epidemie molto più contenute, proprio perché determinano negli organismi che infettano reazioni tali da ridurre o i loro contatti sociali (malattie che costringono quasi sempre a letto) o un alto tasso di letalità, quindi con una minore circolazione del virus nel tempo. Le mutazioni che non variano l’aggressività dei virus, ma li rendono più contagiosi, offrono di solito qualche opportunità in più in termini di diffusione. Ma molto dipende appunto dal caso, e dalle circostanze in cui avvengono le mutazioni.

Sostenere troppo alla leggera che un virus sia mutato e abbia portato a un nuovo ceppo può anche essere pericoloso, in termini di comunicazione e di decisioni politiche. I governi dei paesi in cui un’epidemia non è tenuta adeguatamente sotto controllo potrebbero scaricare parte delle loro responsabilità su queste mutazioni, sostenendo che il mancato controllo dei contagi sia dovuto a cause esterne alle politiche per il contenimento che hanno scelto.

Il governo manda alle regioni i tamponi, ma a mancare sono sempre i reagenti

Ed è ancora uno dei limiti principali nel fare più test, almeno nelle regioni che non se li producono da soli.

La trasmissione di La7 Piazzapulita aveva chiesto giorni fa al governo quanti test per rilevare il coronavirus sarebbero stati fatti entro la fine di maggio: il governo aveva risposto il 30 aprile di aver già mandato alle regioni 2,7 milioni di tamponi, e che soltanto 2 milioni erano stati usati. Il piano, ha aggiunto il governo, è di mandarne altri 5 milioni nei prossimi due mesi. C’è però un problema: queste forniture sono limitate ai soli tamponi, cioè i “bastoncini” con cui si preleva il campione di saliva ai pazienti, e non comprendono i reagenti chimici necessari per elaborare i tamponi e ottenere il responso sull’eventuale positività al coronavirus.

Lo ha confermato al Post Invitalia, l’agenzia nazionale diretta dal commissario straordinario per l’emergenza da coronavirus Domenico Arcuri, a cui competono le misure di rifornimento di materiali e attrezzature sanitarie. In Toscana, per esempio, sono arrivati dal governo 190.800 tamponi, ma senza i reagenti. Nelle Marche sono arrivati reagenti per qualche migliaio di test, ma erano di una tipologia diversa da quelli in utilizzo e non è stato possibile usarli, ha detto una portavoce della regione.

Il problema, ha spiegato Invitalia, è che ogni laboratorio di analisi dei tamponi ha i suoi macchinari, e a macchinari diversi corrispondono reagenti chimici diversi: «di fatto gli approvvigionamenti sono di competenza regionale, perché è complicato comprare reagenti a livello nazionale per ogni macchinario diverso».

Fin da marzo era emerso che il limite principale nel fare più test per il coronavirus non fossero i tamponi in sé, che non mancavano e non mancano, ma i reagenti chimici che – semplificando molto – vengono usati dai macchinari per “estrarre” il campione dal tampone e poi per “amplificarlo” perché se ne possa ottenere un risultato, positivo o negativo. Come raccontano i responsabili di diversi laboratori lombardi, gli approvvigionamenti scarseggiano a livello internazionale, e le regioni stanno avendo grandi difficoltà a procurarsi quelli necessari. A mancare, nello specifico, sono prevalentemente i reagenti di estrazione.

Per la Lombardia, la regione che più di tutte le altre ha fatto meno tamponi di quanti avrebbe dovuto, la responsabilità degli approvvigionamenti dei reagenti è di Aria, un ente pubblico che tra le altre cose si occupa di ottimizzare le spese per le forniture sanitarie. Pierangelo Clerici, direttore del laboratorio di microbiologia dell’ASST Ovest Milanese, ha spiegato al Post che dopo le grosse difficoltà di marzo e della prima metà di aprile la situazione adesso è un po’ migliorata, anche se prevede future criticità perché la richiesta di reagenti è destinata a rimanere alta nel medio periodo. Ferruccio Ceriotti, responsabile del laboratorio del Policlinico, concorda sul fatto che le cose vadano meglio: «i reagenti adesso arrivano, anche se sempre all’ultimo, sul filo del rasoio».

Giovedì sera a Piazzapulita c’era in studio anche il microbiologo Andrea Crisanti, direttore del laboratorio di Padova e tra i coordinatori della risposta del Veneto all’epidemia, considerata la più virtuosa in Italia. Crisanti ha ricordato che il Veneto non sta soffrendo la mancanza di reagenti. Come aveva spiegato al Post, intorno al 20 gennaio il laboratorio di Padova chiese alla regione l’autorizzazione per avviare la produzione autonoma di 500mila dosi di reagenti per un test «fatto in casa, praticamente identico a quello dello Spallanzani». Con l’acquisto di ulteriori strumentazioni in grado di “miniaturizzare” i reagenti, e che quindi consentono di usarne in quantità molto minori, ora il laboratorio ha a disposizione le dosi per analizzare 2,5 milioni di tamponi. Cioè più di quelli fatti in tutta Italia dall’inizio dell’epidemia.

Ricorrere a reagenti autoprodotti non è però semplice, né sempre fattibile. Ci vogliono laboratori in grado di produrne di certificati e affidabili, e in grandi quantità: non a caso quello di Padova è il più attrezzato in Italia per farlo, ha spiegato Ceriotti, e ha tecnologie superiori a quelle in dotazione ai laboratori lombardi. I virologi poi non sono spesso d’accordo sull’affidabilità dei test autoprodotti: se non si riesce a garantirne la qualità come a Padova, hanno spiegato diversi virologi dei laboratori lombardi al Post, è meglio ricorrere a quelli “ufficiali”, prodotti dalle aziende internazionali di biotecnologie per i loro macchinari.

Altri la pensano un po’ diversamente: «se c’è uno sbaglio di uno ogni mille, in un’epidemia quello che conta sono i numeri: che qualcuno sfugga sta nella logica dei grandi numeri. Se non si fanno i tamponi perché non si accetta un errore dell’1 per mille si è sbagliato strategia», aveva detto al Post Crisanti.

La mancanza di reagenti, comunque, non è l’unico limite nel fare più tamponi: nei laboratori che li analizzano manca anche il personale per aumentare di molto la quantità di test elaborati, che deve avere almeno in parte una formazione specifica. Ci sono poi anche limiti di strumentazioni: acquistare nuovi macchinari è diventato molto complicato, perché sono perlopiù prodotti all’estero e quindi vengono venduti prioritariamente nei paesi di produzione, nonostante la grandissima richiesta internazionale.

Aumentare massicciamente il numero di tamponi, insomma, non è un meccanismo immediato e in Italia i test elaborati ogni giorno sono effettivamente aumentati: nella prima settimana di aprile erano stati mediamente 35.500 al giorno, nella prima settimana di maggio sono stati in media 57.500 al giorno. La capacità di test italiana è superiore a quella di altri paesi europei che stanno facendo grande fatica ad aumentare il numero di tamponi: per esempio al 26 aprile erano meno di 550mila in Francia (e 1,76 milioni in Italia), mentre al 2 maggio erano 1,35 milioni in Spagna (e 2,1 milioni in Italia). C’è anche però chi ne sta facendo assai di più: il Regno Unito, anche se complessivamente è più indietro, nell’ultima settimana ha tenuto una media di quasi 73mila test elaborati al giorno. La Germania ha tenuto per tutto aprile una media intorno agli 80mila tamponi al giorno.

Si diventa immuni al coronavirus?

È la domanda delle domande di questa pandemia: non c’è ancora una risposta definitiva, ma iniziano a esserci i primi indizi.

Lo scorso fine settimana l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha invitato i governi a non diffondere il concetto di “patente di immunità”, chiarendo che a oggi non ci sono prove scientifiche chiare per sostenere che si diventi immuni al coronavirus dopo avere superato l’infezione. Queste “patenti” dovrebbero consentire di identificare chi ha già avuto il virus e che potrebbe quindi tornare ad avere una vita attiva sia socialmente sia lavorativamente, senza comportare ulteriori rischi per i nuovi contagi. L’idea è stata molto promossa anche in Italia da alcuni esponenti politici, come il presidente della regione Lombardia, Attilio Fontana, ma proprio come ha spiegato l’OMS è un messaggio rischioso che sembra ignorare la domanda più grande di questa pandemia: si diventa immuni al coronavirus?

Dalla risposta a questa domanda deriveranno moltissime decisioni e sviluppi dell’attuale emergenza sanitaria. Non solo perché la capacità di diventare immuni farà si che la malattia sia meno presente tra la popolazione, man mano che molte persone contrarranno il coronavirus, ma anche perché consentirà di capire se e quanto potremo fare affidamento sui vaccini per raggiungere un buon livello di immunizzazione.

Come si diventa immuni
Il sistema immunitario è la nostra principale difesa dagli agenti esterni (antigeni), come virus e batteri. Semplificando moltissimo, possiamo dire che comprende due livelli di difesa: uno più generalizzato e uno più specifico.

Il primo livello è l’immunità innata, una risorsa di primo intervento sempre pronta ad attivarsi quando viene identificata la presenza di una minaccia esterna che si è intrufolata nel nostro organismo. Non costituisce una risposta mirata e può essere paragonata a un bombardamento a tappeto: induce la produzione di sostanze che distruggono le cellule esposte all’infezione e stimolano l’infiammazione, con un conseguente aumento della temperatura per creare un ambiente ostile alla minaccia.

È un sistema fatto per agire punto e basta. Si rivela spesso efficace, ma è piuttosto grezzo: provvede a distruggere, senza imparare nulla dall’antigene che ha incontrato sulla sua strada o a serbarne memoria per futuri incontri.

In molti casi, questa prima risposta viene seguita da una reazione più precisa e misurata che deriva dall’immunità adattiva. In pratica, il sistema immunitario impara a riconoscere l’antigene e a produrre anticorpi specializzati, che si occuperanno dell’agente infettivo e di distruggere solamente le cellule infette, preservando le altre. È una risposta molto più sofisticata di quella di primo livello, e richiede un po’ di tempo prima che possa attivarsi e rivelarsi efficace.

Nel caso dell’attuale coronavirus, le ricerche preliminari diffuse finora (quindi da prendere con qualche cautela in più) dicono che sia necessaria una decina di giorni prima che l’organismo inizi a produrre anticorpi specifici. Anche per questo motivo buona parte degli sforzi in ospedale, per i pazienti più gravi, sono orientati a prendere tempo e a rallentare la diffusione dell’infezione, nell’attesa che l’immunità adattiva faccia il proprio dovere.

Durata dell’immunità
Con diverse malattie, la memoria immunitaria si sviluppa proprio grazie alla risposta dell’immunità adattiva e molte ricerche indicano come, più è intensa la risposta, migliore sia la durata del ricordo acquisito dal nostro sistema immunitario sulla minaccia.

Diverse malattie tipiche dell’infanzia – come il morbillo, la varicella e la parotite (gli “orecchioni”) – inducono un’immunità di solito permanente, e lo stesso si può ottenere attraverso le vaccinazioni contro queste malattie evitando i rischi che comportano, talvolta letali (meglio vaccinarsi, che ammalarsi). Altre malattie si rivelano invece più sfuggenti e non comportano un’immunizzazione definitiva: può dipendere sia dagli agenti infettivi che le causano, sia dalla loro capacità di mutare nel tempo (come avviene per esempio con l’influenza stagionale).

Coronavirus
I coronavirus che interessano gli esseri umani sono sette, compreso l’attuale (SARS-CoV-2). I quattro noti da più tempo, cioè dai primi anni Sessanta, sono responsabili di sintomi lievi alle vie aeree superiori e sono tra le cause di quello che chiamiamo raffreddore comune. Li prendiamo più volte nella vita e il nostro sistema immunitario tende a serbarne memoria per poco meno di un anno.

Gli altri due coronavirus noti – oltre all’attuale – sono quelli che causano la SARS e la MERS, due sindromi respiratorie che possono portare a sintomi piuttosto gravi, e in alcuni casi alla morte.

Le due malattie sono di recente scoperta (la SARS fu identificata nel 2003, la MERS nel 2012) e non ci sono molti studi sulla durata dell’immunità nelle persone che le hanno avute. Sembra comunque che inducano una memoria più lunga dei coronavirus del raffreddore, con una durata di qualche anno. Il coronavirus che causa la SARS ha diverse cose in comune con l’attuale virus, e questo lascia quindi ottimisti alcuni virologi sulla possibilità di sviluppare una memoria immunitaria per un tempo sufficiente da rendere utile il ricorso a un vaccino.

Se e per quanto
Basandosi sulle conoscenze degli altri coronavirus e più in generale delle malattie infettive, diversi virologi e immunologi ritengono che probabilmente il problema non sia tanto se si diventi immuni, ma per quanto si resti immuni. La possibilità di diventarlo a vita sembra esclusa, ma un vaccino o l’immunizzazione per chi si è ammalato potrebbero essere sufficienti per offrire qualche protezione in più, rendendo meno rischiosa una seconda infezione da SARS-CoV-2.

Se fossero confermate queste circostanze, un vaccino potrebbe consentire di tenere sotto controllo la malattia, riducendo la circolazione del coronavirus a livelli più che accettabili per evitare nuove epidemie su larga scala. Per i primi anni potrebbe essere necessario vaccinare periodicamente le persone più esposte al rischio di contagio o di sviluppare sintomi gravi, in attesa che il coronavirus circoli sempre meno nella comunità.

E chi si riammala?
Nelle settimane scorse sono circolate informazioni su persone che dopo essere guarite dalla COVID-19 si sarebbero ammalate nuovamente. Le segnalazioni sono state sporadiche e le cause di questi episodi potrebbero essere diverse e non strettamente legate all’immunizzazione.

Di solito una persona viene definita “guarita” quando non manifesta più i sintomi della malattia e risulta negativa a un test di controllo, eseguito tramite un prelievo con tampone. Test di questo tipo sono piuttosto affidabili, ma può accadere che in alcune circostanze non diano un esito chiaro sull’effettiva scomparsa del coronavirus. Secondo gli esperti i rari casi segnalati sono probabilmente ricadute, dovute alla carica virale che torna a crescere causando nuovamente sintomi, che comunque si rivelano di solito molto più lievi rispetto all’infezione precedente.

Per comprensibili motivi etici e di tutela della salute dei pazienti, non sono stati condotti esperimenti su individui guariti per provare a indurre una nuova infezione, esponendoli nuovamente al coronavirus. Un gruppo di ricercatori ha tentato questa strada con due macachi, infettandoli una prima volta per indurre una risposta immunitaria e una seconda volta per verificare se fosse stato mantenuto il ricordo dell’agente infettivo. I due macachi non si sono ammalati nuovamente, indicando il probabile mantenimento dell’immunità, ma lo studio ha previsto condizioni molto specifiche e l’impiego di due sole cavie animali, quindi non offre grandi spunti per ipotizzare che cosa possa accadere negli esseri umani.

Riassumendo
A oggi non ci sono evidenze scientifiche sufficienti per affermare che si diventi immuni al coronavirus, anche se ci sono indizi in questo senso, né tanto meno elementi per stabilire quanto a lungo possa durare un’eventuale immunizzazione. La malattia causata dal virus è del resto conosciuta da circa quattro mesi, un tempo molto limitato per fare analisi e valutazioni sugli ex infetti e che potrebbero avere sviluppato un’immunità. Saranno necessari mesi prima di stabilire modalità e tempo di immunizzazione, e per questo come suggerisce l’OMS non si potrà fare ancora troppo affidamento sui test sierologici.