L’OMS ha cambiato idea sulle mascherine

Ora dice di indossarle sempre nei luoghi pubblici, soprattutto dove è difficile garantire il distanziamento fisico: ed è una novità.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha diffuso nuove indicazioni sull’uso delle mascherine per limitare la diffusione del coronavirus (PDF): ha detto che le mascherine dovrebbero essere indossate sempre nei luoghi pubblici, perché «forniscono una barriera per le goccioline potenzialmente infettive». In precedenza l’OMS aveva sostenuto che non ci fossero prove sufficienti per dire che le persone sane dovessero indossare la mascherina.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha detto di avere cambiato idea sulle mascherine a seguito di alcuni studi completati nelle ultime settimane, ma ha aggiunto di continuare a considerarle come una delle tante misure da adottare per ridurre il rischio della trasmissione del virus: un’altra misura, per esempio, è il distanziamento fisico. L’OMS ha raccomandato l’uso delle mascherine soprattutto nei luoghi dove non è sempre possibile il distanziamento, come i trasporti pubblici, i negozi, nei posti di lavoro, e anche nelle scuole e nei luoghi di culto.

In particolare, l’OMS ha raccomandato alle persone di oltre 60 anni, e a quelle con patologie pregresse, di indossare mascherine chirurgiche o filtranti facciali, mentre per gli altri sono sufficienti generiche mascherine a triplo strato, anche autoprodotte (uno strato di cotone assorbente vicino al viso, uno di polipropilene e uno sintetico esterno impermeabile).

Come hanno notato diversi esperti, tra cui il giornalista scientifico David Shukman, si tratta di un cambio notevole nelle indicazioni date dall’OMS ai governi di tutto il mondo. Per mesi, infatti, l’OMS aveva sostenuto che indossare le mascherine potesse dare un falso senso di sicurezza, e ridurre il numero di dispositivi di protezione individuale disponibili per gli operatori sanitari, i più esposti al virus.

Due importanti studi sulla COVID-19 sono stati ritirati

Erano stati pubblicati su Lancet e NEJM, tra le più importanti riviste scientifiche in ambito medico al mondo, basandosi su dati che gli stessi autori non hanno potuto verificare.

Lancet e il New England Journal of Medicine (NEJM) – due tra le più importanti riviste scientifiche in ambito medico al mondo – hanno ritirato due studi sulla sperimentazione di farmaci contro la COVID-19, che avevano avuto grandi ripercussioni nella ricerca di nuovi trattamenti contro la

malattia causata dal coronavirus. Uno dei due studi aveva indotto l’Organizzazione Mondiale della Sanità a interrompere i test con l’idrossiclorochina, un antimalarico che aveva dato alcuni risultati positivi nel trattamento dei pazienti, ma che secondo la ricerca ora ritirata poteva avere in alcuni casi effetti collaterali gravi sui malati di COVID-19.

Non accade spesso che studi pubblicati su riviste di questo livello siano ritirati, e che questo accada così velocemente dopo la loro diffusione. Secondo diversi esperti, la vicenda dimostra come la ricerca di soluzioni per la pandemia abbia portato a una certa frenesia in ambito scientifico e clinico, con la pubblicazione di decine di nuove ricerche ogni giorno e poco tempo per verificarne l’affidabilità anche da parte delle riviste scientifiche più rispettate.

Entrambi gli studi erano stati realizzati dal cardiochirurgo Mandeep Mehra (Brigham and Women’s Hospital, Università di Harvard) insieme ad altri ricercatori, sulla base di un grande set di dati fornito da Surgisphere, una piccola azienda di Chicago gestita da Sapan Desai, indicato tra gli autori delle due ricerche.

Lo studio pubblicato su Lancet aveva segnalato che, in diverse circostanze, l’idrossiclorochina potesse causare più danni che benefici nei pazienti con COVID-19. Il farmaco viene utilizzato contro la malaria ed è in circolazione da diversi decenni: in Italia e in altri paesi è soprattutto noto con il nome commerciale Plaquenil, usato anche per trattare malattie autoimmuni, come il lupus e l’artrite reumatoide. L’idrossiclorochina era finita al centro dell’interesse dei media un paio di settimane fa, quando il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, aveva detto di avere iniziato ad assumerla come terapia preventiva contro la COVID-19, nonostante la mancanza di evidenze scientifiche circa l’utilità del farmaco per prevenire l’infezione da coronavirus.

Dopo la pubblicazione della ricerca di Mehra su Lancet, diversi ricercatori avevano espresso dubbi circa l’affidabilità dei dati su cui era basata e forniti da Surgisphere. In molti si erano chiesti come avesse fatto un’azienda così piccola, con meno di una decina di dipendenti, ad avere raccolto ed elaborato i dati sanitari di decine di migliaia di pazienti, forniti da centinaia di ospedali con i quali dichiarava di avere avviato collaborazioni. Raccogliere dati sanitari non è semplice e richiede la stipula di contratti molto articolati con ogni ospedale, con specifiche garanzie per la tutela della privacy dei pazienti: appariva quindi improbabile che Surgisphere da sola fosse riuscita a ottenere risultati simili.

Le evidenze scientifiche in una ricerca dovrebbero valere più di qualsiasi curriculum, ma c’è sempre il rischio che la reputazione degli autori di una ricerca condizioni le valutazioni degli altri, almeno nei primi tempi dopo la pubblicazione dei loro lavori. Mehra è un ricercatore molto rispettato e nel corso della sua carriera ha pubblicato centinaia di studi, cosa che potrebbe avere condizionato il modo in cui è stato percepito il suo studio sull’idrossiclorochina. Leggendo le conclusioni del suo lavoro, diversi ricercatori avevano deciso di rivedere o fermare le loro sperimentazioni e la stessa OMS aveva annunciato una sospensione dei test, per precauzione, considerati i rischi indicati da Mehra e colleghi. L’Organizzazione ha da poco annunciato il riavvio delle sperimentazioni.

Lancet ha ritirato lo studio su indicazione degli autori, dopo che Surgisphere si è rifiutata di fornire i dati completi in suo possesso sui pazienti, rendendo impossibile la verifica degli stessi da parte di altri ricercatori non coinvolti direttamente nella ricerca. La società ha comunicato di non potere condividere quei dati a causa degli accordi con gli ospedali con cui collabora. Questa circostanza ha reso impossibile la verifica dei dati e quindi la stessa analisi dello studio.

Anche lo studio ritirato dal NEJM era basato sui dati di Surgisphere: segnalava che l’assunzione di alcuni farmaci per regolare la pressione non comportava un maggior rischio di morte tra i malati di COVID-19, come era stato invece indicato da altri studi. Gli autori della ricerca hanno pubblicato una nota sulla rivista dicendo di non avere avuto accesso ai dati grezzi forniti dall’azienda, e di non essere quindi in grado di avere ulteriori conferme sulla loro qualità. Il dettaglio paradossale è che oltre a Mehra tra gli autori dello studio c’è anche Desai (il capo di Surgisphere), che sembra non abbia accesso alle informazioni trattate dalla sua stessa azienda.

In seguito alla vicenda, Mehra ha diffuso un comunicato a titolo personale, nel quale ha spiegato di essere entrato in contatto con Desai tramite un collega e di essersi poi reso conto di non avere elementi a sufficienza per fare completo affidamento sui dati di Surgisphere: “Non ho fatto abbastanza per assicurarmi che la fonte dei dati fosse adeguata all’uso che ne abbiamo fatto. Per questo, e per tutti i disagi causati – direttamente o indirettamente – chiedo sinceramente scusa”.

La scelta delle due riviste scientifiche di pubblicare le note degli autori degli studi, senza accompagnarle da proprie valutazioni sull’accaduto, è stata criticata da numerosi osservatori. Secondo i più critici, in un momento storico in cui si pubblicano ogni giorno decine di ricerche su una pandemia in corso sarebbero utili valutazioni e introspezioni sugli errori compiuti, soprattutto da parte di riviste molto importanti e rispettate.

L’OMS ha sospeso i test sull’idrossiclorochina

Lo ha fatto «per abbondanza di precauzione», e dopo settimane in cui era stata indicata come possibile rimedio al coronavirus soprattutto da alcuni leader politici.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha sospeso i test sull’efficacia contro il coronavirus dell’idrossiclorochina, un farmaco per la malaria che secondo valutazioni preliminari era stato descritto come potenzialmente utile per prevenire l’infezione da coronavirus (senza alcuna conferma scientifica). La settimana scorsa il presidente statunitense Donald Trump aveva detto di avere iniziato una terapia a base di idrossiclorochina, mentre da tempo varie sperimentazioni erano state avviate un po’ in tutto il mondo, anche in Italia.

L’OMS non ha fornito molti dettagli sulla sua decisione. Mike Ryan, capo del programma che si occupa delle emergenze sanitarie, ha detto che è stata presa «per abbondanza di prudenza». Il capo dell’OMS Tedros Adhanom Ghebreyesus ha aggiunto che la sperimentazione sull’idrossiclorochina è l’unica ad essere stata interrotta fra quelle gestite dall’OMS, comprese sotto il nome di SOLIDARITY.

Si era iniziato a parlare dell’impiego dell’idrossiclorochina contro la COVID-19 a febbraio, in seguito a un test di laboratorio che aveva evidenziato la sua capacità di impedire al coronavirus di legarsi alle cellule, primo passaggio per poterle poi sfruttare per replicarsi. Il test era stato eseguito in vitro, quindi non in un organismo, e aveva alcuni limiti nella sua realizzazione. Uno studio fatto in Cina aveva invece incluso un gruppo di controllo, rilevando qualche miglioramento nei pazienti con casi poco gravi di COVID-19. Anche in quel caso la ricerca aveva coinvolto un numero limitato di persone.

L’OMS aveva comunque raccomandato ai medici di tutto il mondo di non prescrivere l’idrossiclorochina al di fuori dei test clinici, dato che la sua assunzione può provocare diversi effetti collaterali.

Non sarà difficile solo trovarlo, il vaccino

Il suo successo non dipenderà solo dall’efficacia, ma anche dalla capacità di produrne e distribuirne una quantità enorme di dosi: e chi lo riceverà per primo?

Giovedì 21 maggio il governo degli Stati Uniti ha istituto un fondo da oltre 1 miliardo di dollari che potrà impiegare per ricevere tra 300 e 400 milioni di dosi di un vaccino contro il coronavirus, ammesso che ne sia sviluppato uno efficace. Altri paesi si stanno organizzando per fare altrettanto, chiedendo garanzie sulla disponibilità di dosi in quantità sufficienti per la loro popolazione. A oggi non esiste un vaccino contro il coronavirus e gli esperti stimano che potrebbe essere necessario un anno prima di averne uno, ma la sfida nei prossimi mesi non riguarderà solamente questo: sarà necessario organizzarne la produzione e la distribuzione su una scala senza precedenti.

Vaccini e coronavirus
Attualmente ci sono circa 80 gruppi di ricerca in giro per il mondo al lavoro per sviluppare un vaccino contro il coronavirus, seguendo approcci e tecniche diverse. A inizio settimana l’azienda farmaceutica statunitense Moderna ha annunciato alcuni primi risultati promettenti di un proprio vaccino sperimentale, suscitando però qualche perplessità da parte di diversi osservatori.

Gli Stati Uniti hanno invece messo a disposizione il loro fondo per AstraZeneca, azienda farmaceutica britannico-svedese che ad aprile ha avviato una collaborazione con l’Oxford Vaccine Group dell’Università di Oxford. Il gruppo ha sviluppato un primo vaccino sperimentale, somministrato in una prima fase di test a circa mille volontari nel Regno Unito, allo scopo di verificarne la sicurezza e l’efficacia. I risultati dei primi test non sono ancora noti, ma dovrebbero essere diffusi aggiornamenti nelle prossime settimane.

Il vaccino sviluppato a Oxford è ritenuto tra i più promettenti e, se si rivelasse efficace, sarebbe poi prodotto da AstraZeneca su commissione dai paesi interessati. Per ora oltre agli Stati Uniti ha manifestato interesse nel progetto il Regno Unito, confidando di ottenere le prime dosi già alla fine dell’estate. Questa eventualità appare improbabile per diversi osservatori, che invitano ad avere qualche cautela in più sullo sviluppo dei vaccini contro il coronavirus.

Fare i vaccini
Nell’ultimo secolo, i vaccini hanno consentito di salvare milioni di vite e di eliminare quasi completamente malattie pericolose, invalidanti e talvolta letali, come il vaiolo e la poliomielite. Sono una risorsa essenziale per prevenire le malattie e hanno contribuito a fare aumentare l’età media della popolazione in buona parte del mondo.

Semplificando molto, quando entriamo in contatto con agenti infettivi (come virus e batteri) il nostro sistema immunitario interviene per evitare che l’infezione prosegua, e in diversi casi serba memoria dell’attacco per prevenire attacchi successivi: si diventa immuni. Alla prima infezione di un virus il sistema immunitario non ha però ancora gli strumenti per riconoscere la minaccia, e ci ammaliamo con tutte le conseguenze e i rischi del caso. Un vaccino serve per insegnare al sistema immunitario a riconoscere un determinato agente infettivo, evitando però che ci si debba ammalare.

Di solito si impiegano versioni incomplete o depotenziate degli agenti infettivi, quindi in grado di suscitare una risposta immunitaria, ma non di farci ammalare. Trovare la giusta combinazione non è però semplice e molto dipende dal modo in cui sono fatti i virus e i batteri contro i quali si vuole realizzare un vaccino. È per questo motivo che da decenni abbiamo a disposizione vaccini molto efficaci contro malattie come il vaiolo o il morbillo, mentre fatichiamo a produrne di validi e affidabili contro l’HIV.

A oggi non esistono vaccini già impiegati sulla popolazione per prevenire infezioni da altri coronavirus, nonostante questi tipi di virus siano conosciuti da quasi 60 anni. Non tutti i ricercatori sono ottimisti sulla possibilità di svilupparne uno contro l’attuale, e ci sono diversi aspetti da chiarire: non sappiamo se e per quanto tempo si diventi immuni dal coronavirus, e questo potrebbe complicare l’approvazione di un vaccino.

Nel miglior scenario possibile, entro un anno potremmo comunque avere a disposizione un vaccino contro il coronavirus, ma il suo eventuale successo dipenderebbe poi dalla capacità di produrne dosi a sufficienza per tutti.

Quante dosi
Non è chiaro quante dosi del vaccino siano necessarie per tenere sotto controllo la pandemia. Molto dipenderà da quanto si sarà nel frattempo diffusa la malattia nella popolazione, suscitando un’eventuale immunizzazione per contagio tra la popolazione. In linea di massima: più saranno i contagiati, minori saranno le quantità di vaccino necessarie. Non è una differenza da poco, se si considera che in un caso potrebbero essere richieste milioni di dosi del vaccino e nell’altro miliardi.

Se si mettono insieme tutti i vaccini prodotti contro svariate malattie ogni anno, compresa l’influenza stagionale, si arriva a una produzione mondiale di circa 6 miliardi di dosi contenute in oltre 1,6 miliardi di fiale e boccette. Per motivi di praticità, sia dal lato produttivo sia da quello della logistica, molte case farmaceutiche producono i vaccini in fiale multidose, dalle quali gli operatori possono attingere più volte per la somministrazione a diversi individui.

Le stime circolate finora ipotizzano che per il vaccino contro la COVID-19 potrebbe essere necessaria la produzione di 200-300 milioni di fiale multidose, uno sforzo produttivo che a oggi non può essere raggiunto da nessun produttore da solo, ipotizzando che mantenga nel frattempo i normali livelli di produzione degli altri vaccini.

I tempi per produrre una dose di vaccino variano molto a seconda della tipologia stessa del vaccino e delle tecniche impiegate per produrlo. Uno dei metodi più diffusi implica l’utilizzo degli embrioni nelle uova di gallina, e comporta un lavoro di svariate settimane per realizzare il prodotto finale. Le catene produttive devono essere sorvegliate con grande attenzione, soprattutto per assicurarsi che i vaccini siano realizzati e confezionati in ambienti sterili e privi di qualsiasi tipo di contaminazione.

La produzione del vaccino è inoltre solo una parte del processo, che richiederà la disponibilità di centinaia di milioni di nuove fiale e boccette sterili, sistemi di trasporto e di distribuzione potenziati, senza contare l’attività di somministrazione delle dosi da parte dei sistemi sanitari nei singoli paesi.

Potenziare la produzione
Per raggiungere i livelli di produzione necessari a soddisfare la domanda, le aziende del settore dovranno necessariamente collaborare tra loro, realizzando piani strategici di svariati mesi e che tengano in considerazione l’avanzamento delle ricerche. Dovranno scommettere sulle soluzioni che appaiono più promettenti, mantenendosi comunque la possibilità di cambiare più volte strategia man mano che saranno disponibili i dati sui test clinici.

In previsione di dovere dedicare una parte rilevante della loro capacità produttiva alla pandemia, le aziende del settore dovrebbero inoltre pianificare una produzione anticipata di vaccini per l’influenza stagionale e per altre malattie, in modo da mantenerle in magazzino o distribuirle prima ai clienti.

Altri interventi dovrebbero riguardare il modo stesso in cui sono organizzate le linee produttive, prevedendo l’introduzione di maggiori standard per esempio sulle dimensioni e le caratteristiche delle fiale. Questo approccio consentirebbe di avere una distribuzione più omogenea di macchinari e risorse per produrre e confezionare i vaccini. Avrebbe inoltre il vantaggio di rendere più rapido ed efficace il passaggio a soluzioni alternative, nel caso in cui un vaccino si rivelasse meno efficace del previsto.

Incertezze
Lo sviluppo del nuovo vaccino sta avvenendo in una fase di grande incertezza, e questo potrebbe condizionare gli sforzi per produrlo e diffonderlo. Molto dipenderà dall’andamento della pandemia nei prossimi mesi e dagli approcci che seguiranno le autorità sanitarie. A seconda delle circostanze e delle decisioni assunte, potrebbero essere necessarie quantità enormi o relativamente contenute del vaccino.

Almeno in una prima fase appare improbabile una vaccinazione di massa della popolazione, considerata la diffusione della malattia. Potrebbero essere sottoposti al vaccino i soggetti più a rischio, come gli anziani e gli individui con altre malattie, che potrebbero aggravarsi a causa del coronavirus. Il vaccino potrebbe essere inoltre somministrato agli operatori sanitari e ai lavoratori in altri settori essenziali, per assicurarsi che possano rimanere attivi. Una vaccinazione selettiva di questo tipo implicherebbe comunque l’impiego di decine di milioni di dosi in buona parte dei paesi del mondo.

Per evitare che la domanda iniziale resti insoddisfatta si ipotizza un approccio alternativo, che preveda la vaccinazione degli individui nelle aree più a rischio e maggiormente esposte all’eventualità di entrare in contatto con persone contagiose. Strategie simili per cerchie di conoscenti sono state adottate nelle fasi finali della campagna di eradicazione del vaiolo e per altre malattie molto pericolose, come l’Ebola. I risultati ottenuti sono stati positivi e hanno consentito di rendere più razionale il consumo delle dosi.

Non si può comunque escludere che il vaccino arrivi troppo tardi o che si riveli meno utile di quanto prospettato finora. È per questo motivo che molti governi si mantengono ancora cauti con gli ordini, in attesa di elementi più concreti su capacità produttive e quantità di dosi necessarie. Ci sono del resto esempi nel passato recente di produzioni di vaccini rivelatesi ampiamente fuori scala: nel 2009 per la pandemia da virus influenzale H1N1 i governi spesero miliardi di euro per acquistare grandi quantità di dosi del vaccino, che si rivelarono poi inutili in seguito alla fine dell’emergenza sanitaria.

I provvedimenti incisivi adottati da buona parte dei governi per rallentare la diffusione del contagio, tramite restrizioni e limitazioni ai movimenti, hanno per ora consentito di ridurre sensibilmente i nuovi casi positivi e hanno alleviato il carico per i sistemi sanitari, inizialmente sotto forte stress come avvenuto in Italia. Gli esperti dicono che l’attuale rallentamento nella rilevazione di nuovi casi potrebbe indurre i governi a sentire una minore urgenza per un vaccino, con una conseguente riduzione degli investimenti per la ricerca. Potrebbe essere un altro elemento di incertezza da non sottovalutare, con conseguenze serie se la pandemia dovesse presentarsi con una nuova ondata di contagi il prossimo autunno.

Finanziamenti
La ricerca per i vaccini contro il coronavirus è finanziata da aziende farmaceutiche, governi e da numerose fondazioni, che negli ultimi mesi hanno donato svariate centinaia di milioni di dollari. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha previsto un fondo da 8,7 miliardi di dollari per lo sviluppo di vaccini e farmaci per trattare più efficacemente i casi di COVID-19. La Bill & Melinda Gates Foundation ha stanziato oltre 250 milioni di dollari per la ricerca, e altri fondi sono stati attivati dalla Coalition for Epidemic Preparedness Innovations (CEPI), un’organizzazione che utilizza a sua volta fondi forniti da governi e fondazioni per finanziare la ricerca di soluzioni contro malattie che potrebbero causare epidemie su larga scala. L’iniziativa esiste da qualche anno ed è nata in seguito ai casi di Ebola nell’Africa occidentale.

Comunicazione
Una volta ottenuto un vaccino, i governi dovranno organizzare campagne di comunicazione chiare sulle sue modalità di somministrazione e sulle priorità decise per chi potrà avervi accesso per primo. Negli ultimi anni numerose campagne di gruppi e organizzazioni hanno messo in dubbio l’utilità dei vaccini, diffondendo notizie false sulla loro presunta pericolosità. La diffidenza verso un vaccino completamente nuovo, e sviluppato in tempi molto più rapidi rispetto al solito, potrebbe influire sulla sua diffusione e per questo sarà essenziale che le campagne informative siano chiare, soprattutto sul tema della sicurezza per la salute.

L’idrossiclorochina previene il coronavirus?

Donald Trump dice di prenderla da quasi due settimane, ma a oggi non ci sono indicazioni convincenti sulla sua efficacia per evitare l’infezione.

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha detto di avere iniziato ad assumere l’idrossiclorochina – un farmaco solitamente prescritto per la malaria – come “terapia preventiva” contro il coronavirus. Ha detto di assumerla ogni giorno da una settimana e mezza e di sentirsi bene, aggiungendo di averne sentito parlare bene da diverse persone. Trump ha promosso in vari modi l’uso dell’idrossiclorochina negli ultimi due mesi, nonostante a oggi non ci siano prove scientifiche convincenti circa la sua utilità nei trattamenti contro la COVID-19 o per prevenirla, senza parlare dei suoi potenziali effetti collaterali.

Trump aveva citato per la prima volta l’idrossiclorochina a marzo, nel corso di una delle sue conferenze stampa che teneva quotidianamente per aggiornare sull’epidemia negli Stati Uniti e le misure assunte dal suo governo. In un’occasione aveva definito il farmaco un “punto di svolta” contro la pandemia, anche se numerosi medici e i suoi stessi esperti scientifici avessero invitato a mantenere grandi cautele circa l’utilità del medicinale.

Da circa metà marzo l’idrossiclorochina ha ottenuto notevoli attenzioni soprattutto negli Stati Uniti, con esponenti politici tra i conservatori che in modo più o meno diretto ne hanno consigliato l’uso, sia per trattare la COVID-19 sia come una sorta di trattamento preventivo per ridurre il rischio di contrarre il coronavirus. Lo hanno fatto in mancanza di basi scientifiche concrete, senza attendere i risultati delle sperimentazioni che sono ancora in corso in numerosi paesi, compresa l’Italia.

L’idrossiclorochina è in circolazione da diversi decenni: in Italia e in altri paesi è nota soprattutto con il nome commerciale Plaquenil ed è impiegata per trattare la malaria e malattie autoimmuni, come il lupus e l’artrite reumatoide. Si è iniziato a parlare del suo impiego contro la COVID-19 nei primi giorni di febbraio, in seguito a un test di laboratorio che aveva evidenziato la capacità dell’idrossiclorochina di impedire al coronavirus di legarsi alle cellule, primo passaggio per poterle poi sfruttare per replicarsi. Il test era stato eseguito in vitro, quindi non in un organismo, e aveva alcuni limiti nella sua realizzazione.

Nelle settimane seguenti l’idrossiclorochina era stata impiegata in combinazione con un antibiotico, l’azitromicina, in alcuni paesi con qualche risultato nei pazienti. I test clinici erano però stati svolti su un numero limitato di persone e senza gruppi di controllo, cioè con pazienti sottoposti ad altre terapie o con un placebo (un finto farmaco). Una ricerca pubblicata in Francia era circolata abbastanza, prima di essere ridimensionata nella sua portata in seguito alla scoperta di diverse imprecisioni.

Uno studio condotto in Cina aveva invece incluso un gruppo di controllo, rilevando qualche miglioramento nei pazienti con casi poco gravi di COVID-19. Anche in quel caso la ricerca aveva comunque coinvolto un numero limitato di persone, poco più di 60 pazienti, ai quali erano stati somministrati diversi altri farmaci oltre l’idrossiclorochina.

Uno dei potenziali benefici dell’idrossiclorochina deriva dalla sua capacità di ridurre la risposta immunitaria dell’organismo, evitando che diventi sproporzionata rispetto all’infezione causata dal coronavirus. In alcuni casi, infatti, il sistema immunitario reagisce in modo piuttosto aggressivo al coronavirus, causando danni nei tessuti cellulari soprattutto a livello polmonare. Nelle terapie intensive vengono quindi impiegati farmaci per modulare questa reazione, ma con esiti ancora difficili da valutare nel loro complesso.

L’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) ha approvato da inizio aprile l’impiego sperimentale dell’idrossiclorochina per i pazienti con COVID-19, così come ha fatto per diversi altri farmaci sviluppati negli anni passati per altre malattie e che potrebbero rivelarsi utili anche contro il coronavirus. La somministrazione deve avvenire sotto stretto controllo medico, perché come segnalato anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’idrossiclorochina può causare reazioni avverse anche gravi. L’impiego del farmaco dovrebbe essere inoltre limitato a circa una settimana, con una valutazione dei suoi effetti prima di proseguire o sospendere il trattamento.

L’idrossiclorochina deve essere somministrata con grande attenzione nelle persone con altri problemi di salute, come aritmie cardiache, malattie renali e problemi alla retina. In diversi pazienti il suo impiego comporta inoltre effetti indesiderati come diarrea, nausea, irritazioni cutanee e cambiamenti di umore. La sua assunzione insieme all’azitromicina comporta ulteriori rischi.

A oggi non ci sono prove che l’idrossiclorochina possa in qualche modo prevenire un’infezione da coronavirus. Alcune ricerche sono in corso per verificare se la somministrazione a persone che vivono a contatto con persone positive al virus, e potenzialmente contagiose, possa ridurre il rischio di contrarre il coronavirus. Saranno necessarie ancora settimane prima di avere risultati concreti. L’assunzione preventiva di un farmaco di questo tipo allo stato attuale delle conoscenze è sconsigliata dalla maggior parte dei medici.