Gli ormoni sessuali femminili contro il coronavirus

Saranno utilizzati in due test clinici negli Stati Uniti per valutare se riducano il rischio di morte per gli uomini, visto che sono più a rischio delle donne.

Due ospedali degli Stati Uniti hanno avviato test clinici contro la COVID-19: trattare i pazienti di sesso maschile con ormoni femminili per aiutarli a contrastare il coronavirus. Nei casi più seri, infatti, la malattia ha esiti gravi e può causare la morte soprattutto tra gli uomini. Le cause di questa differenza non sono ancora completamente chiare, ma i medici di un ospedale di New York e di uno di Los Angeles vogliono capire se gli ormoni abbiano un ruolo e in quale misura. Seppur condotti su un numero limitato di pazienti, i due test clinici potrebbero fornire nuovi spunti ed elementi per comprendere meglio le infezioni causate dal virus.

Uno dei due test è stato avviato presso l’ospedale dell’Università Stony Brook di Long Island, nello stato di New York, dove si è iniziato a chiedere ai pazienti di partecipare su base volontaria, con l’obiettivo di raccogliere 110 partecipanti. Il reclutamento avviene nel pronto soccorso, all’arrivo di persone con sintomi che facciano sospettare una COVID-19 (febbre, tosse secca, difficoltà respiratorie) o con una diagnosi di laboratorio già effettuata. L’obiettivo è di selezionare casi con sintomi importanti, ma non tali da rendere necessaria l’intubazione.

Al test clinico possono accedere sia adulti di sesso maschile, sia donne con un’età superiore ai 55 anni, quindi verso la menopausa e con bassi livelli di estrogeni, i principali ormoni sessuali femminili. A metà dei partecipanti sarà fatto indossare un cerotto che diffonde estradiolo, un estrogeno prodotto dalle ovaie e che viene spesso impiegato per ridurre i sintomi dovuti alla menopausa. L’altra metà farà invece da gruppo di controllo, per verificare le differenze cliniche tra chi riceve gli estrogeni e chi no.

Le donne sopra i 55 anni sono comprese nel test per capire meglio quanto incidano i fattori ormonali sulla gravità dei sintomi della COVID-19. Durante la menopausa gli estrogeni sono meno presenti, e questo sembra quindi contraddire in parte l’assunto sul ruolo degli ormoni: se avessero un peso così rilevante, la letalità tra le donne con COVID-19 non dovrebbe differenziarsi sensibilmente da quella degli uomini. Invece anche le donne anziane si mostrano meno soggette agli effetti del coronavirus, una circostanza rilevata in tutti i paesi. In Italia, per esempio, nella fascia di età tra i 70 e i 79 anni il tasso di letalità degli uomini è del 30 per cento circa, contro il 17 per cento delle donne.

(Istituto Superiore di Sanità)

L’altro test clinico è condotto invece presso il Cedars-Sinai Medical Center di Los Angeles ed è stato progettato su una scala più piccola, con 40 partecipanti, tutti di sesso maschile. La sperimentazione è aperta unicamente ai pazienti ricoverati nell’ospedale e con sintomi tra lievi e moderati, senza particolari malattie preesistenti. A 20 di loro saranno somministrate quotidianamente per 5 giorni due dosi di progesterone, altro ormone sessuale, mentre gli altri 20 costituiranno il gruppo di controllo.

Durante il periodo di test, i medici verificheranno le condizioni di salute dei pazienti, rilevando eventuali cambiamenti nei loro sintomi. La scelta del progesterone invece degli estrogeni come nel test a New York è derivata dal fatto che in alcuni studi si è notato un influsso del progesterone sul sistema immunitario e i meccanismi che utilizza per provocare le infiammazioni (che servono per distruggere le cellule infette, ma che in particolari circostanze possono finire fuori controllo e causare seri problemi, come avviene nei pazienti gravi con COVID-19). Il progesterone potrebbe quindi ridurre la risposta immunitaria, rendendo meno gravi le sindromi respiratorie dovute alla malattia.

Da alcune ricerche, gli estrogeni sembrano avere un effetto sulle ACE2, un tipo di proteina presente nella membrana delle cellule di molti tessuti del nostro organismo. L’attuale coronavirus riesce a sfruttare questa proteina per eludere le difese della cellula, riuscendo a iniettarvi all’interno il suo codice genetico (RNA) e a sfruttare i meccanismi cellulari per produrre nuove copie, che infettano poi altre cellule facendo aumentare l’infezione virale. L’ACE2 è regolata diversamente tra soggetti di sesso femminile e maschile. In test condotti su cavie di laboratorio, i ricercatori hanno notato che gli estrogeni possono ridurre la presenza della proteina in tessuti specifici (come quelli dei reni), e quindi lo stesso potrebbe avvenire negli esseri umani.

Non tutti sono comunque convinti dell’approccio seguito dalle due ricerche, considerato che molte pazienti in menopausa si mostrano comunque meno esposte al rischio di sintomi gravi da COVID-19 rispetto agli uomini. Lo stesso ruolo degli ormoni nella regolazione del sistema immunitario non è ancora compreso totalmente, e questo si riflette sulle opportunità di sfruttarne i meccanismi.

Per avere risultati rilevanti dai due studi sarà necessario attendere qualche mese, e non è detto che si possano ottenere evidenze scientifiche utili contro la COVID-19. La somministrazione per un limitato periodo di tempo di ormoni sessuali femminili negli uomini non comporta comunque particolari rischi, quindi i test clinici possono essere condotti senza particolari preoccupazioni, considerata anche la costante assistenza da parte dei medici.

A oggi non esiste una cura contro la COVID-19 e non c’è un vaccino: i trattamenti disponibili sono per lo più orientati a rallentare l’infezione nell’organismo, offrendo più tempo al sistema immunitario per imparare a riconoscere il coronavirus e a sbarazzarsene. Nei casi più gravi la malattia rende necessaria l’intubazione per diversi giorni, con forti stress per i pazienti. I farmaci sperimentati finora hanno l’obiettivo di ridurre l’infiammazione e la replicazione del virus, ma non si mostrano efficaci in tutti i pazienti. Anche per questo motivo si stanno moltiplicando studi e test clinici su altri farmaci, pensati per altre malattie, ma che potrebbero offrire qualche beneficio anche contro la COVID-19. Altre soluzioni sperimentali riguardano l’impiego di trasfusioni di sangue dai convalescenti ai pazienti gravi, per favorire la loro risposta immunitaria.

Cosa vuol dire essere malati di COVID-19

I primi sintomi, il ricovero in ospedale e poi il processo di guarigione, spesso complicato e incerto.

La sera del 10 marzo Edoardo, 39 anni, ha cominciato ad avere qualche linea di febbre e leggeri giramenti di testa. Quel giorno era stato all’ospedale Buzzi di Milano per assistere alla nascita di sua figlia. La mattina dopo, con la febbre a 38 e mezzo, una sensazione di compressione del torace e difficoltà a respirare bene, Edoardo ha chiamato l’ospedale. È stato mandato all’ospedale Sacco di Milano per fare il tampone al coronavirus: positivo.

Il 29 febbraio Mario (nome di fantasia), 69 anni, è andato al lavoro anche se si sentiva poco bene, con una forte sensazione di spossatezza. La mattina dopo si è svegliato con febbre, tosse e dolori in tutto il corpo: ha pensato subito al coronavirus, perché aveva fatto il vaccino anti-influenzale, e si è preoccupato perché aveva avuto una polmonite seria diciassette anni fa. Dopo aver fatto una radiografia ai polmoni, passato qualche giorno, è andato al pronto soccorso a Crema, dove gli hanno fatto il tampone: positivo.

La sera del 24 febbraio, dopo una giornata di lavoro, Marco (nome di fantasia), 54 anni, ha cominciato ad avere la febbre alta. È rimasto a casa dieci giorni con la febbre, prendendo paracetamolo e poi antibiotici, fino alle prime grosse difficoltà respiratorie. È andato la prima volta al pronto soccorso di Legnano (Milano) il 3 marzo, e poi di nuovo il 5 marzo. La seconda volta lo hanno portato in reparto di semi-intensiva, gli hanno messo la maschera per respirare e gli hanno fatto il tampone: positivo.

Edoardo, Marco e Mario sono solo tre delle decine di migliaia di persone che in Italia nell’ultimo mese hanno sviluppato i sintomi della COVID-19, la malattia provocata dal nuovo coronavirus: hanno avuto febbre e difficoltà respiratorie, sono state ricoverate in ospedale e poi sono state dimesse. Insieme a diversi altri malati di COVID-19, hanno raccontato al Post le loro storie: lo sviluppo dei primi sintomi, il difficile ricovero in ospedale e il lento processo di guarigione, che in alcuni casi si sta dimostrando clinicamente ed emotivamente piuttosto complicato.


Spiegare cosa significhi avere la COVID-19 a chi non l’ha avuta è piuttosto complesso. È una malattia che assomiglia poco a quelle che siamo abituati a conoscere, ed è diversa anche dalla normale polmonite batterica.

Inizia con lo sviluppo di alcuni sintomi particolari – generalmente dolori alle articolazioni, febbre e tosse – ma non ci sono evoluzioni standard: alcune persone mostrano fino dai primi giorni febbre alta, sopra i 38,5 °C, altri qualche linea; alcuni hanno subito difficoltà a respirare, altri hanno crolli respiratori dopo giorni; alcuni sentono dolori al torace, mancanza di gusto e olfatto, perdita dell’appetito, quasi tutti una intensa stanchezza.

La grande maggioranza dei malati di COVID-19 sviluppa sintomi lievi, che passano da soli o che possono essere tenuti sotto controllo in isolamento domiciliare, ma non sempre è così: in alcuni casi è necessario un ricovero in ospedale, e nelle aree più colpite non tutte le persone che ne avrebbero bisogno ricevono tempestivamente il trattamento adeguato.

Quasi tutti i malati con cui ha parlato il Post hanno raccontato di avere avuto grandi difficoltà a ottenere una diagnosi certa di COVID-19 prima di andare in ospedale: sia perché in alcune regioni, come la Lombardia, i tamponi vengono fatti solo alle persone in condizioni così gravi da dover essere ricoverate, sia per la varietà dei sintomi mostrati e la scarsa conoscenza che si continua ad avere dell’evoluzione della malattia. I malati più gravi di COVID-19 sviluppano infatti polmoniti interstiziali bilaterali (che interessano entrambi i polmoni), che peggiorano molto in fretta e creano complicanze difficili da trattare, hanno raccontato diversi medici anestesisti che lavorano in alcuni degli ospedali più colpiti.

Michele Marzocchi, medico di famiglia che riceve a Milano, ha definito le polmoniti date dalla COVID-19 «più subdole» rispetto a quelle batteriche, che provocano un numero maggiore di sintomi visibili.

Marzocchi ha raccontato per esempio di avere auscultato i polmoni di un paziente che mostrava sintomi di COVID-19, ma che all’esame medico risultava respirare bene e i cui polmoni sembravano perfetti. Tre giorni dopo, durante la notte, lo stesso paziente ha avuto un crollo respiratorio, peggiorando rapidamente. «Subdola» è lo stesso termine usato da Mario, paziente 69enne di Crema con un’esperienza precedente di polmonite batterica: ha raccontato di avere avuto la febbre alta per giorni ma mai superiore a 39 °C, e sempre accompagnata da sintomi non facili da interpretare, come una intensa stanchezza ed estrema fatica anche solo a spostarsi da una parte all’altra della casa.

«Una polmonite così non l’ho mai vista prima, è una patologia che conosciamo veramente poco», ha detto Angelo Vavassori, 53 anni, che di lavoro fa l’anestesista rianimatore all’ospedale di Bergamo e che ha sviluppato la COVID-19 dopo essere entrato in contatto con pazienti positivi.

Le difficoltà a diagnosticare la COVID-19, e la scarsa conoscenza del comportamento della malattia, hanno fatto sì che in molti casi persone con sintomi siano state lasciate a casa più tempo del dovuto, rischiando di non avere assistenza medica adeguata in caso di improvviso peggioramento respiratorio.

Gabriele (nome di fantasia), 54 anni, di Crema, ha iniziato a sviluppare i primi sintomi il 28 febbraio, tra cui febbre alta e perdita di gusto e olfatto. Per oltre una settimana, nonostante diverse telefonate al medico di famiglia e ai numeri di emergenza messi a disposizione dalle autorità sanitarie, non è riuscito a ottenere niente di più che l’indicazione di prendere farmaci per tenere sotto controllo la febbre. Otto giorni dopo, grazie a contatti familiari e preoccupato per i molti racconti su conoscenti finiti in ospedale a seguito di improvvisi peggioramenti, Gabriele è riuscito a farsi fare una radiografia, che ha mostrato una situazione ai polmoni già compromessa. È stato immediatamente ricoverato: prima gli è stata applicata la maschera per l’ossigeno, poi, dopo un rapido peggioramento delle sue condizioni, gli è stato messo il casco CPAP.

«Non so come sarebbe finita se avessi avuto il crollo a casa invece che in ospedale: forse ora non sarei qui», ha raccontato Gabriele, che nel frattempo è stato dimesso ma che è ancora in fase di guarigione.


Per alcuni malati di COVID-19 sentiti dal Post, l’esperienza in ospedale è stata complicata, soprattutto nelle aree più colpite dall’epidemia, come le province di Bergamo e Cremona.

Mario e Gabriele, entrambi ricoverati all’ospedale di Crema e arrivati in pronto soccorso con difficoltà respiratorie acute, hanno dovuto aspettare molte ore prima di essere trasferiti in uno dei reparti dell’ospedale riconvertiti per assistere i pazienti con la COVID-19. Entrambi hanno raccontato di avere trascorso la notte su una barella nel corridoio del pronto soccorso, con una mascherina per l’ossigeno, in attesa del risultato del tampone. «C’erano molte persone, molte barelle una a fianco all’altra. C’era molta gente che aveva paura», ha raccontato Gabriele: paura di non sapere cosa sarebbe successo, e di non riuscire a respirare.

«Ti manca l’aria nei polmoni», ha raccontato Marco, 54enne ricoverato all’ospedale di Legnano. «È una cosa che parte dal basso. È come soffocare, non hai nemmeno la forza di parlare». «Potevo solo respirare per rimanere vivo», ha detto Mario: «Non avevo la forza di fare niente. Durante i primi giorni di ricovero, ho detto ai miei figli di dire a tutti di non chiamarmi. Non riuscivo a parlare».

L’esperienza del ricovero in un reparto destinato ai malati di COVID-19 è molto diversa a seconda della gravità del paziente, e della situazione di stress in cui si trova l’ospedale. Molte persone ricoverate raccontano di come sia difficile rimanere per giorni in un letto senza poter parlare con nessuno e senza poter guardare in faccia medici e infermieri, tutti coperti da mascherine e visiere e a volte riconoscibili solo dal nome scritto a mano sul sovracamice. Può essere disorientante e può aumentare il senso di solitudine e incertezza, già molto intenso per la mancanza di contatti con amici e familiari, che non possono per nessuna ragione entrare nei reparti destinati ai pazienti con il coronavirus.

Anche il personale sanitario si è dovuto adattare alla nuova situazione, soprattutto nelle prime fasi dell’epidemia, per le difficoltà di non conoscere bene la malattia e la paura di venire contagiati, e magari rischiare di contagiare i propri familiari una volta finito il turno di lavoro. Edoardo, 39enne ricoverato a Milano, ha raccontato che a un certo punto è stato visitato da due medici: «uno si vedeva che era in controllo, sapeva quello che faceva, l’altro era un cardiologo di 55 anni che era stato messo lì per dare una mano con i pazienti positivi». «Quando mi ha auscultato, il cardiologo stava piegato in avanti, cercando di starmi il più lontano possibile. Aveva paura di essere contagiato, era terrorizzato», ha detto.

Una delle esperienze più difficili da affrontare – se si esclude l’intubazione, per la quale però il paziente viene tenuto addormentato – è quella del casco CPAP, che viene applicato ai pazienti già abbastanza gravi e che all’inizio provoca una forte sensazione di soffocamento.

«Il casco è devastante da un punto di vista mentale», ha raccontato Vavassori, anestesista di Bergamo, «soprattutto per chi come me soffre di claustrofobia lieve e si sente quasi soffocare anche a mettersi una cravatta». All’interno del casco c’è un flusso costante di ossigeno che si può modulare a seconda delle esigenze del paziente. Il problema è che all’interno si crea un ambiente umido e caldo, con un «rumore assordante» che amplifica ancora di più la sensazione di non riuscire a respirare. «In questi casi è indispensabile la sedazione, che toglie la parte dell’ansia e rende più naturale per il paziente farsi aiutare dal casco per la respirazione».

Vavassori, anche lui già dimesso dall’ospedale e in via di guarigione, ha raccontato la paura che ha sentito dopo avere avuto un peggioramento respiratorio in casa, e avendo avuto a che fare nei giorni precedenti con pazienti gravi malati di COVID-19 ricoverati in terapia intensiva a Bergamo. «Ho pensato: qui si mette male. Ho salutato i miei figli come se fosse l’ultima volta. Due di loro hanno capito che qualcosa non andava, si sono messi a piangere».

Per i pazienti malati di COVID-19 e ricoverati, essere dimessi dall’ospedale non significa essere “guariti”: significa spesso essere ancora malati ma stare sufficientemente bene da poter rimanere in isolamento domiciliare per il tempo necessario alla completa ripresa e alla scomparsa del virus dall’organismo. Anche questa fase, però, è piuttosto complicata e incerta.

L’ospedale si deve assicurare che il paziente abbia la possibilità di rispettare alcune precise regole di isolamento domiciliare. Per tornare a casa propria, il paziente deve assicurare di vivere da solo, o di poter disporre di un bagno privato e di una stanza in cui rimanere isolato, per ridurre al minimo il rischio di contagiare i propri conviventi. Se non ha questa possibilità, diventa tutto più complicato. In alcune città, per esempio Bergamo, il comune in collaborazione con l’ATS locale ha messo a disposizione diverse stanze in strutture solitamente adibite ad altro, ad esempio gli alberghi. Ma non c’è posto per tutti, e in altre città progetti di questo tipo sono partiti in ritardo o non sono mai partiti.

Edoardo, che non ha avuto la possibilità di fare l’isolamento domiciliare né a casa propria né in una struttura messa a disposizione del comune di Milano (che ha aperto i primi posti letto in un hotel la scorsa settimana), è stato costretto a trovare in fretta un appartamento da affittare, a spese proprie. Lo stesso hanno dovuto fare molte altre persone che non avevano gli spazi adeguati in casa per l’isolamento domiciliare, e che sono state costrette a trovare soluzioni alternative per poter essere dimesse dall’ospedale.

Alla difficoltà di trovare una sistemazione si aggiungono diversi altri problemi, legati sia alle scarse conoscenze che si hanno sul processo di guarigione dalla COVID-19, sia alle complicazioni nel fare e ottenere due risultati negativi ai tamponi di controllo sulla presenza del virus nell’organismo.

Alcuni pazienti dimessi dall’ospedale, soprattutto quelli che avevano mostrato sintomi più gravi, hanno continuato ad avere per settimane difficoltà respiratorie, qualche linea di febbre e una forte sensazione di spossatezza. «È un processo di guarigione lentissimo», ha detto Vavassori, sottolineando come la scarsa conoscenza della malattia implichi anche una scarsa conoscenza del processo di guarigione. Questa incertezza è vissuta con preoccupazione da molti, soprattutto da quelle persone costrette a fare l’isolamento domiciliare da sole e senza particolari attenzioni dalle autorità sanitarie locali.

Diversi pazienti e medici di famiglia sentiti dal Post sostengono che bisognerebbe dare alle persone in isolamento domiciliare i saturimetri, strumenti che servono a misurare la saturazione dell’ossigeno nel sangue, che però da un po’ di tempo sono praticamente introvabili. Averli a disposizione permetterebbe alle persone a casa di tenersi continuamente controllato il valore dell’ossigeno, agendo per tempo prima dell’insorgenza di problemi respiratori seri.

Anche per chi non sviluppa particolari problemi dopo le dimissioni dall’ospedale, essere dichiarati “guariti” non sembra essere così facile.

Nelle ultime settimane in molte ATS c’è stata parecchia confusione sulle indicazioni da dare alle persone che dovevano sottoporsi ai due tamponi di controllo, che devono essere fatti a 24 ore di distanza uno dall’altro. A un paziente dimesso da un ospedale di Milano è stato detto che i suoi tamponi sarebbero stati rimandati per la troppa gente in attesa e per l’impossibilità dei laboratori di processarli tutti. L’indicazione è andare direttamente in ospedale o in un centro apposito a fare il test, spostandosi con i mezzi propri, nonostante la possibile positività al coronavirus, usando mascherina e guanti.

In diversi casi di cui è venuto a sapere il Post, i tamponi fatti anche dopo un mese dalle dimissioni dell’ospedale sono risultati positivi. È troppo presto per tirare conclusioni, soprattutto perché si conosce ancora troppo poco dell’attuale coronavirus, ma questo potrebbe significare un più lungo processo di guarigione per alcuni malati di COVID-19.

di Elena Zacchetti

Concorso OSS – 30 posti – Biella

Scadenza: 22 marzo 2020

Azienda sanitaria locale ‘BI’ CONCORSO PUBBLICO PER TITOLI ED ESAMI PER N. 30 POSTI DI  OPERATORE SOCIO SANITARIO CAT. BS PRESSO L’ASL BI DI BIELLA
In esecuzione della determinazione dirigenziale n. 868 del 20/08/2019 e successiva integrazione n. 1111 del 21/10/2019 è indetto pubblico concorso per titoli ed esami per la copertura di n° 30 posti di OPERATORE SOCIO SANITARIO , Categoria Bs, presso l’Azienda Sanitaria Locale BI di Biella.
Si precisa che il bando di concorso, indetto per n. 30 posti, potrebbe essere oggetto di riduzione del numero dei posti, in relazione all’esito della procedura di mobilità indetto con lo stesso provvedimento n. 868 del 20/8/2019.
Alla suddetta posizione funzionale è attribuito il trattamento giuridico ed economico previsto dalle disposizioni legislative, dal C.C.N.L. vigente per il personale del S.S.N., oltre le quote di aggiunta di famiglia, se ed in quanto dovute.

REQUISITI GENERALI E SPECIFICI PER L’AMMISSIONE:
Possono partecipare al presente concorso coloro che siano in possesso dei seguenti requisiti generali previsti dal D.P.R. n. 220 del 27.3.2001 e specifici previsti dall’Allegato 1 del C.C.N.L. integrativo stipulato in data 20.9.2001 e s.m.i., salva l’emanazione di diverse disposizioni normative:
Requisiti generali:
– cittadinanza italiana
in alternativa
– cittadinanza di uno dei paesi dell’Unione Europea
– cittadinanza di Paesi Terzi, qualora ricorra una delle seguenti condizioni:
– titolari del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo
– titolari dello status di rifugiato
– titolari dello status di protezione sussidiaria
– Idoneità Fisica alla mansione. L’accertamento dell’idoneità fisica alla mansione – con osservanza delle norme in tema di categorie protette, è effettuato a cura dell’Azienda Sanitaria Locale prima dell’immissione in servizio.
Requisiti Specifici:
SPECIFICO TITOLO DI OPERATORE SOCIO SANITARIO, conseguito a seguito del superamento del Corso di Formazione di durata Annuale.

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Concorso Ircss Messina

Scadenza: 17/02/2020 12:00 pm

Avviso pubblico, per titoli e colloquio, per formulazione di graduatoria per l’assunzione a tempo determinato di collaboratore professionale infermiere cat. D e operatore socio sanitario cat. BS nell’ambito del progetto di Ricerca corrente – rrc-2018-2365826 “presa in carico e riabilitazione dei soggetti con patologie neurologiche gravi e progressive e macchina dipendenti”

Art. 1- REQUISITI DI AMMISSIONE

Le Amministrazioni pubbliche garantiscono parità e pari opportunità tra uomini e donne per l’accesso al lavoro ed al trattamento sul lavoro (art. 7 – 1° comma – Decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165).

Per l’ammissione al concorso sono prescritti i seguenti requisiti generali:

  1. cittadinanza italiana, salve le equiparazioni stabilite dalle leggi vigenti , o cittadinanza di uno dei Paesi dell’Unione Europea. I cittadini degli Stati membri dell’Unione Europea devono godere dei diritti civili e politici anche nello Stato di appartenenza o di provenienza e avere adeguata conoscenza della lingua italiana (D.P.C.M. 7.2.1994, N.  174);
  2. limiti di età: età non inferiore ad anni 18 e non superiore a quella prevista dalle vigenti norme sul collocamento a riposo d’ufficio del personale laureato del ruolo sanitario;
  3. idoneità fisica all’impiego: l’accertamento della idoneità fisica all’impiego – è effettuato, a cura dell’IRCCS Centro Neurolesi Bonino Pulejo di Messina prima dell’immissione in servizio;

Avviso completo

All.A Infermieri

All.A OSS

Concorso OSS 266 posti – Abruzzo

INDIZIONE CONCORSO PUBBLICO, PER TITOLI ED ESAMI, PER LA COPERTURA A TEMPO INDETERMINATO DI POSTO DI OPERATORE SOCIO SANITARIO CAT. B – LIVELLO ECONOMICO BS – RUOLO TECNICO. PROCEDURA AGGREGATA REGIONALE: AZIENDE UU.SS.LL. DI TERAMO, LANCIANO-VASTO-CHIETI E AVEZZANO-SULMONA-L’AQUILA.

Suddivisione posti:

AUSL TERAMO 22 posti perOPERATORI SOCIO SANITARI
AUSL AVEZZANO-SULMONA-L’AQUILA 82 posti per OPERATORI SOCIO SANITARI
AUSL LANCIANO-VASTO-CHIETI 162 posti per OPERATORI SOCIO SANITARI

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Si attende pubblicazione in gazzetta ufficiale