Cosa vuol dire isolare un virus

E perché è importante il risultato ottenuto dall’Istituto Nazionale Malattie Infettive “Lazzaro Spallanzani”, anche se non è arrivato per primo.

Domenica 2 febbraio, l’Istituto Nazionale Malattie Infettive “Lazzaro Spallanzani” ha annunciato di avere isolato il nuovo coronavirus (2019-nCoV), che ha causato oltre 360 morti in Cina e 17mila casi di contagio. Agenzie di stampa e media italiani hanno ampiamente ripreso la notizia, parlando dell’Italia come del “primo paese” ad avere isolato il virus. In realtà lo stesso risultato era stato ottenuto nelle settimane scorse da diversi altri centri di ricerca, a cominciare da quelli cinesi. Esserci arrivati prima o dopo non toglie comunque nulla all’importanza del risultato ottenuto dallo Spallanzani, che aiuterà i ricercatori a comprendere meglio le caratteristiche del coronavirus e a testare farmaci e vaccini per contrastarlo.

Che cos’è un virus?
Per farsi un’idea di cosa significhi isolare e sequenziare un virus, conviene fare un breve ripasso di biologia. I virus sono entità biologiche piuttosto semplici e si comportano come i parassiti: hanno cioè bisogno di un altro organismo per moltiplicarsi e prosperare. Le modalità di sviluppo e di trasmissione dei virus variano molto a seconda delle specie, ma in linea di massima seguono questo schema: si intrufolano nelle cellule, ingannando le difese delle loro membrane, e successivamente iniettano il loro codice genetico per modificare il comportamento della cellula e sfruttarla per replicarsi.

La presenza del virus innesca una risposta immunitaria da parte dell’organismo infettato (negli animali), che di solito consente di eliminarlo. Il sistema immunitario serba poi memoria dell’incontro, in modo da impedire al virus di fare nuovamente danni; i vaccini consentono di acquisire questa memoria senza che ci si debba ammalare. Alcuni virus sono però più pericolosi di altri e riescono a causare infezioni croniche, come avviene per esempio con l’HIV.

Cosa vuol dire isolare un virus?
Lo scopo dell’isolamento è ottenere la possibilità di produrre grandi quantità dello stesso virus, in modo da poterlo poi studiare o sfruttare per verificare il modo in cui reagisce con alcuni farmaci.

Un virus viene “isolato” quando è separato dall’organismo infetto iniziale. Semplificando: si prelevano campioni (sangue, tessuto cellulare, urina o altro) dall’individuo interessato e li si trasferiscono in laboratorio, avendo cura che questi non subiscano contaminazioni. Una prima attività riguarda la “pulizia” del campione, un trattamento essenziale per escludere funghi e batteri, che interferirebbero con l’attività virale.

Come abbiamo visto, i virus hanno bisogno delle cellule per moltiplicarsi, a differenza per esempio dei batteri che producono e sviluppano colonie autonomamente. I ricercatori devono quindi trovare il modo di “coltivare” il virus, cioè di indurlo a replicarsi. Possono farlo con tecniche in vivo o in vitro: nella prima si utilizza un intero organismo vivente (come un animale o una pianta), mentre nella seconda tutto avviene su piastre e provette di vetro.

In vitro
Diversi tipi di cellule possono essere impiegati per far crescere e moltiplicare i virus, da un campione di partenza. Si parte di solito da cellule prelevate da un animale, che vengono preparate in una coltura che viene poi messa in contatto con il campione virale. Questa tecnica avvia un fenomeno (adsorbimento) attraverso il quale il virus può intrufolarsi nelle cellule o inserire il suo codice genetico, infettarle e indurle a produrre un gran numero di sue nuove copie.

In vivo
Di solito per la tecnica in vivo si utilizzano embrioni in fase di sviluppo, per esempio nel caso del vaccino influenzale si procede utilizzando le uova fecondate (lo avevamo raccontato estesamente qui). L’embrione o l’intero animale fanno da incubatore per la replicazione virale, utile poi per studiare il virus e le sue caratteristiche.

Studio del virus
Dalle colture in vitro o in vivo si possono ottenere campioni, per poter osservare su una scala più grande gli effetti del virus. Di solito l’osservazione inizia al microscopio per valutare i danni causati dall’infezione. Le cellule colonizzate mostrano anormalità (“effetto citopatico”) come cambiamenti nella forma, anomalie nelle loro membrane e nei nuclei.

E che cos’è il sequenziamento?
In biologia molecolare, il sequenziamento serve per avere una trascrizione dell’ordine delle basi (adenina, citosina, guanina e timina) che fanno parte del frammento di DNA che si sta analizzando (nel caso dei virus è molto spesso l’RNA, una versione semplificata). Nella sequenza sono codificati i geni, e le istruzioni per quando e come devono essere espressi (espressione genica). In generale, se ottieni la sequenza puoi capire il come e il perché della vita di un organismo. Di alcune porzioni di DNA conosciamo già le funzioni, quindi i ricercatori possono mettere a confronto la sequenza che hanno ottenuto con quelle già conosciute, in modo da ricostruire almeno in parte cosa è codificato nel DNA.

Per sequenziare un virus, si esamina un campione prelevato da un individuo infetto e se ne effettua poi l’analisi. Il problema è che in queste condizioni il materiale genetico del virus è confuso con quello della cellula che è stata colonizzata. I progressi raggiunti negli ultimi anni hanno consentito di attenuare il problema e di accelerare i processi di sequenziamento, attraverso i virus isolati.

Le prime righe del sequenziamento del nuovo coronavirus:

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Che cosa hanno fatto allo Spallanzani?
Le ricercatrici Concetta Castilletti, Francesca Colavita e Maria Rosaria Capobianchi nei giorni scorsi si sono messe al lavoro sui campioni prelevati da uno dei due pazienti cinesi, ricoverati presso lo Spallanzani dopo che avevano mostrato sintomi da infezione da nuovo coronavirus. I campioni sono stati poi utilizzati per isolare il virus e coltivarlo, seguendo le procedure di sicurezza per evitare contagi.

Dopo qualche giorno, il gruppo di ricerca ha riscontrato l’effetto citopatico, a conferma del successo nella coltivazione del virus. Non era un risultato scontato, visto che il tasso di successo è di solito intorno al 10 per cento, cosa che rende necessaria la preparazione di più colture alle giuste condizioni ambientali. In Italia è stato inoltre sequenziato il nuovo coronavirus, trovando caratteristiche genetiche analoghe a quelle già rilevate in precedenza da altri centri di ricerca.

Chi ha sequenziato per primo il nuovo coronavirus?
Le prime polmoniti sospette sono state riscontrate a Wuhan, la città cinese epicentro della crisi sanitaria, alla fine del 2019, inducendo diversi centri di ricerca in Cina a effettuare controlli di laboratorio sui pazienti interessati. Il 10 gennaio, a poco più di un mese dal primo caso di polmonite, i ricercatori cinesi hanno annunciato di avere sequenziato il nuovo coronavirus, e hanno reso pubblici i risultati della loro analisi. La rapidità è stata notevole, se si considera che con il coronavirus che causa la SARS i tempi furono molto più lunghi, a testimonianza dei progressi raggiunti negli ultimi anni.

Nelle settimane successive, centri di ricerca in Cina e in altre parti del mondo hanno sequenziato campioni di coronavirus prelevati da altri pazienti, ottenendo informazioni genetiche su una ventina di casi. Il 31 gennaio scorso, l’Istituto Pasteur della Francia ha annunciato di avere isolato il nuovo coronavirus, da campioni prelevati da un paziente cinese infetto ricoverato in un ospedale francese.

OK, ma quindi la storia di essere arrivati primi?
Domenica 2 febbraio, il ministro della Salute Roberto Speranza ha annunciato con grande enfasi, nel corso di una conferenza stampa, l’isolamento del nuovo coronavirus da parte dello Spallanzani, ma non ha detto che l’Italia avesse raggiunto per prima questo risultato. Il gruppo di ricerca ha poi esposto i risultati delle attività svolte presso l’istituto, senza intestarsi alcun primato.

Nel comunicato stampa diffuso dall’Istituto si parlava invece di “primi in Europa”: l’ufficio stampa ha spiegato al Post che il testo era stato scritto nella serata di venerdì 31 gennaio, senza essere al corrente dell’annuncio dell’Istituto Pasteur.

La situazione del coronavirus in Italia

Ci sono 650 casi di contagio confermati, 17 morti e 45 guariti, secondo gli ultimi dati diffusi dalla Protezione Civile.

Secondo gli ultimi dati ufficiali di giovedì 27 febbraio, in Italia sono stati accertati finora 650 casi di contagio da coronavirus (SARS-CoV-2): sono 403 in Lombardia, 111 in Veneto, 97 in Emilia-Romagna, 19 in Liguria, 4 in Sicilia, 3 nelle Marche, 3 nel Lazio e 3 in Campania, 2 in Piemonte, 2 in Toscana, 1 in Abruzzo, 1 in Puglia e 1 nella Provincia autonoma di Bolzano. Di questi, 248 sono ricoverati con sintomi e 56 sono in terapia intensiva, mentre 284 si trovano in isolamento domiciliare. Le persone guarite sono 45, di cui 40 in Lombardia, mentre le morti legate al coronavirus sono 17.

Al momento sono stati individuati due focolai del virus: uno nel lodigiano, dove si trova anche Codogno, la città in cui è stato confermato il primo caso in Italia, e uno a Vo’, in provincia di Padova. Ci sono anche molti altri casi di contagio in Italia che sembrano essere legati a questi due focolai. Lo stesso vale per molti casi di contagio in Europa degli ultimi giorni: ne sono stati confermati in Spagna, Svizzera, Lituania, Austria, Croazia, Francia, Germania, Danimarca, Paesi Bassi e sembrano tutti avere a che fare con l’Italia. Lo stesso vale per alcuni casi recenti in Brasile e in Nigeria.

Durante la conferenza stampa di mercoledì pomeriggio, il capo della Protezione Civile Angelo Borrelli aveva spiegato che i dati sui contagi sono forniti in base alle comunicazioni delle regioni e del ministero della Sanità, e che c’è un altro numero di contagi che invece viene invece fornito dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS) dopo aver effettuato le controprove sui campioni inviati dalle regioni, e quindi con tempi più lunghi: in questo caso i contagi confermati dall’ISS a oggi sono 282.

Tutti i test che vengono fatti a livello locale, e poi ripetuti per una seconda conferma, devono infatti essere trasmessi all’Istituto Superiore di Sanità per un terzo controllo, il più preciso: solo a quel punto un test positivo può essere contato come un vero caso di contagio. Sono passaggi di controllo importanti perché i primi test non sono sempre completamente affidabili e a volte essere imprecisi e dare risultati errati.

Giovedì, durante una conferenza stampa con la stampa estera, il direttore scientifico dell’Istituto Spallanzani di Roma Giuseppe Ippolito ha detto che si sta lavorando per cambiare il modo in cui vengono comunicati i dati sui contagi del coronavirus in Italia, affinché vengano comunicati solo quelli clinicamente rilevanti, «ovvero i casi clinici di pazienti in rianimazione o morti, come avviene negli altri paesi del mondo». I positivi ai tamponi fatti per qualsiasi altro motivo andranno invece in una lista separata, ha detto Ippolito.

Mercoledì sera si è molto parlato della situazione a Milano, dopo la decisione della regione Lombardia di rivedere l’ordinanza con cui dopo i primi casi di coronavirus era stato deciso di chiudere bar e locali pubblici dalle 18 alle 6 del mattino, come misura precauzionale.

Pur non modificando l’ordinanza originale, la regione ha spiegato che a certe condizioni – per esempio quella di effettuare servizio al tavolo e non al banco – i bar sarebbero potuti tornare ai loro consueti orari di servizio. Sempre mercoledì si è parlato del contagio di una stretta collaboratrice del presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, e lo stesso Fontana e diversi altri dipendenti della Regione si sono sottoposti ai test (almeno nel caso di Fontana risultati per ora negativi).

Giovedì, inoltre, è stata annunciata la riapertura al pubblico del Duomo di Milano, che aveva chiuso ai turisti domenica scorsa. Il Duomo riaprirà da lunedì 2 marzo, ma gli ingressi saranno contingentati e i biglietti si potranno acquistare solo online.

La differenza tra epidemia e pandemia

E perché per ora l’Organizzazione Mondiale della Sanità non parla di pandemia per il coronavirus.

Ieri il direttore dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), Tedros Adhanom Ghebreyesus, durante il punto sui contagi da coronavirus (SARS-CoV-2) ha detto che al momento non si può ancora parlare di “pandemia”, ma solo di “epidemia”. Qual è la differenza?

Le parole “epidemia” e “pandemia” riguardano le malattie infettive, quelle causate da agenti che entrano in contatto con un individuo (come i virus, appunto), si riproducono e ne causano un’alterazione. La differenza tra epidemia e pandemia non ha a che fare con la gravità di una malattia, ma con la sua diffusione geografica. Le malattie infettive, spiega l’Istituto Superiore della Sanità, hanno caratteristiche diverse di diffusione. Alcune sono molto contagiose e altre lo sono meno. In base alla suscettibilità della popolazione e alla circolazione dell’agente infettivo, una malattia infettiva può manifestarsi in una popolazione in forma sporadica, epidemica, endemica o pandemica (“Pan-demos”, in greco, significa “tutto il popolo”).

Il caso sporadico è quello che si manifesta in una popolazione in cui una certa malattia non è sempre presente. Una malattia è invece definita endemica quando l’agente responsabile è stabilmente presente e circola nella popolazione, manifestandosi con un numero di casi più o meno elevato, ma distribuito uniformemente nel tempo.

L’epidemia è la manifestazione collettiva di una malattia, e si verifica quando il numero dei casi aumenta rapidamente in breve tempo e interessa in una particolare area un numero di persone più alto rispetto alla media, per una certa comunità. Gli elementi che portano a un contagio inaspettato e quindi al superamento della soglia di trasmissione possono essere diversi. L’agente infettivo diventa più resistente; varia, cioè si riduce, l’immunità verso quell’agente; oppure l’agente non era prima presente all’interno di una popolazione che dunque si trova ad affrontarlo per la prima volta.

L’OMS parla invece di pandemia quando un nuovo agente patogeno per il quale le persone non hanno immunità si diffonde rapidamente e con facilità in una zona molto più vasta e diffusa rispetto a quella solitamente interessata da un’epidemia. L’OMS identifica sei fasi che portano alla pandemia: una di queste prevede un’area con una presenza di infezioni paragonabile a quella del paese in cui sono iniziati i contagi. I dati che provengono finora da altre parti del mondo, al di fuori della Cina, indicano un numero ancora relativamente basso di nuovi casi e inducono quindi a qualche prudenza nel parlare di pandemia. Tra le pandemie più conosciute nella storia ci fu la cosiddetta “spagnola” che si diffuse tra il 1918 e il 1919, e l’asiatica del 1957.

Mary-Louise McLaws, esperta nel controllo delle infezioni che ha lavorato come consulente dell’OMS, ha spiegato al Guardian che dichiarare una pandemia non è sempre un procedimento automatico e chiaro, perché i parametri utilizzati possono variare. Non esiste una soglia ben definita, come per esempio un numero preciso di decessi o di contagi, né esiste un numero preciso di paesi colpiti che deve essere raggiunto: spetta alla discrezionalità dei responsabili dell’OMS. Il virus della SARS, identificato nel 2003, non venne dichiarato pandemico dall’OMS nonostante avesse interessato 26 paesi, anche perché la sua diffusione fu contenuta rapidamente e poche nazioni ne furono significativamente colpite.

Perché non c’è un vaccino contro il nuovo coronavirus?

Semplicemente perché è troppo presto, ma sono già in corso le ricerche per produrlo, e il più in fretta possibile.

Contro il nuovo coronavirus (2019-nCoV) – che ha causato oltre cento morti in Cina e il contagio di migliaia di persone, non ci sono cure né vaccini. Mentre il personale medico offre assistenza ai malati per trattare i sintomi, e le autorità cinesi provvedono alle attività di contenimento delle infezioni, alcuni centri di ricerca e aziende farmaceutiche in giro per il mondo sono al lavoro per realizzare un vaccino, nella speranza di riuscirci in tempi stretti. Attualmente, la soluzione più rapida e praticabile per ridurre i rischi resta l’isolamento dei pazienti e lo stretto controllo sui nuovi contagi, ma nel caso in cui la situazione dovesse peggiorare, un vaccino potrebbe rivelarsi determinante.

Le società farmaceutiche Johnson & Johnson, Moderna Therapeutics e Inovio Pharmaceuticals sono già al lavoro per lo sviluppo di vaccini contro il nuovo coronavirus, così come alcuni centri di ricerca privati e pubblici, come i National Institutes of Health (NIH), l’agenzia del dipartimento della Salute degli Stati Uniti.

Inovio ha ricevuto un fondo da 9 milioni di dollari dalla Coalition for Epidemic Preparedness Innovations (CEPI), un’organizzazione che utilizza fondi forniti da governi e fondazioni per finanziare la ricerca di soluzioni contro malattie che potrebbero causare epidemie su larga scala. L’iniziativa esiste da qualche anno ed è nata in seguito ai casi di Ebola nell’Africa occidentale. CEPI ha finanziato almeno altri due programmi di ricerca per lo sviluppo di un vaccino contro 2019-nCoV.

Nell’ultimo secolo, i vaccini si sono rivelati una risorsa fondamentale per ridurre al minimo la diffusione di malattie, anche molto pericolose, salvando centinaia di milioni di vite umane. Per molto tempo lo sviluppo di un vaccino contro un virus completamente nuovo ha richiesto tempo – mediamente tra i due e i tre anni – ma negli ultimi tempi i progressi nella genomica (la scienza che studia il genoma, la totalità del DNA o RNA contenuto in un organismo) e un maggiore coordinamento internazionale hanno consentito di accelerare sensibilmente i tempi. I ricercatori che lavorano al vaccino contro 2019-nCoV confidano di arrivare ai primi test entro tre mesi.

Prima di potere essere impiegato sulla popolazione e su larga scala, un vaccino deve superare una complessa serie di test, prima sugli animali e successivamente su gruppi di esseri umani. L’intero processo richiede tempo e difficilmente può essere svolto in meno di un anno, dall’inizio dello sviluppo al suo impiego. Allo stato attuale i vaccini non sono quindi utili per le prime fasi di un’epidemia con un nuovo virus, banalmente perché ancora non esistono, ma potrebbero diventarlo in una seconda fase se il contagio proseguisse e diventasse diffuso.

Salvo alcune eccezioni, ogni volta che viene scoperto un nuovo virus, i ricercatori devono ricominciare da zero per analizzarlo e comprendere quali siano i suoi punti deboli. Quando ci furono i casi di SARS in Cina nel 2003, furono necessari 20 mesi prima che fosse pronto per i test clinici un vaccino, sulla base delle informazioni genetiche raccolte sul virus che causava la grave sindrome respiratoria. Nel 2015 per il virus Zika furono invece necessari appena 6 mesi, a testimonianza dei progressi in ambito tecnico e della ricerca.

Nel caso della SARS le lentezze furono in parte dovute alle reticenze del governo cinese, che preferì non diffondere da subito alcune informazioni sulla malattia e i contagi, temendo che la notizia potesse danneggiare l’economia della Cina in piena crescita. Con il nuovo coronavirus le cose sono andate diversamente: nei primi giorni del 2020, i ricercatori cinesi hanno messo a disposizione i profili genetici del virus, condividendoli con la comunità scientifica internazionale.

I ricercatori statunitensi dell’NIH hanno potuto confrontare le caratteristiche genetiche del nuovo coronavirus con quelle dei coronavirus che causano la SARS e la MERS, altra malattia infettiva particolarmente aggressiva emersa qualche anno fa in Cina (e contenuta prima che potesse causare un’epidemia su larga scala). Si sono concentrati sulle “punte” del coronavirus, quelle che danno il nome a questa famiglia di virus proprio perché i loro contorni ricordano il profilo di una corona.

Due virioni del nuovo coronavirus al microscopio elettronico (Centro Dati Nazionale di Microbiologia, Cina)

Le punte sono formate dai “peplomeri”, le strutture proteiche che insieme ad altri meccanismi servono ai virus per attaccarsi alle cellule dell’organismo da infettare. Una volta che si sono legati alle cellule ospiti, i virus rilasciano il loro codice genetico modificando il comportamento della cellula. Questo processo fa sì che si attivi una risposta immunitaria da parte dell’organismo infettato, che cerca di sbarazzarsi del virus (solitamente facendo alzare la temperatura: in pratica viene la febbre).

I ricercatori sanno che bloccando le punte si può togliere al coronavirus la sua capacità di legarsi alle cellule che vuole colonizzare. Per questo in passato all’NIH, come in altri centri di ricerca, sono stati sviluppati vaccini sperimentali che spuntavano le corone dei coronavirus che causano la SARS e la MERS. Nel primo caso il vaccino non è mai stato commercializzato perché la SARS è stata contenuta per tempo, mentre nel secondo il vaccino è ancora in fase di perfezionamento e lo scorso anno ha superato i primi test su esseri umani.

Considerate le somiglianze tra il coronavirus della SARS e l’attuale, i ricercatori dell’NIH hanno pensato di accelerare lo sviluppo di un nuovo vaccino riproducendo alcuni dei meccanismi già sviluppati. Hanno quindi sostituito solo parte del codice genetico, inserendo quello del nuovo coronavirus, e poi ne hanno testato l’efficacia. È il primo passo di un lavoro di ricerca più lungo, che potrà essere proseguito dalle aziende farmaceutiche come Moderna. L’obiettivo è di trovare il modo di creare un vaccino che “insegni” al sistema immunitario a riconoscere le punte del coronavirus, e a contrastarle evitando che il virus riesca a legarsi alle cellule.

Il progetto prevede una collaborazione che interesserà altre istituzioni e centri di ricerca, in modo da avere in poche settimane un prototipo del vaccino da testare in laboratorio. Se il vaccino sperimentale si rivelerà promettente a sufficienza, continuerà a essere sviluppato e, appurata la sua sicurezza, messo alla prova sugli esseri umani.

Inovio, un’altra azienda farmaceutica, confida invece di avere un altro vaccino sperimentale pronto per l’inizio dell’estate. I suoi ricercatori hanno analizzato il profilo genetico del nuovo coronavirus e, tramite alcuni modelli al computer, si sono concentrati sulle sue parti più vulnerabili. Se i test nell’estate dovessero dare esiti positivi, i ricercatori potrebbero iniziare a sperimentare il vaccino in Cina entro la fine dell’anno.

Johnson & Johnson stima che potrebbero essere necessari dagli 8 ai 12 mesi per iniziare i test clinici del suo vaccino su esseri umani. Per allora la crisi sanitaria legata a 2019-nCoV potrebbe essere finita, ma non c’è ancora modo di saperlo e le organizzazioni sanitarie internazionali preferiscono non farsi trovare impreparate. Anche per questo motivo il modello della partecipazione tra governi e fondazioni adottato da qualche anno si sta rivelando proficuo: fa da incentivo alla ricerca per lo sviluppo di soluzioni che potrebbero rivelarsi superflue, e che in altre circostanze non verrebbero esplorate.

Allo stato attuale, salvo particolari complicazioni, in buona parte dei casi il sistema immunitario delle persone con nuovo coronavirus impara a contrastare la sua presenza, portando alla guarigione. Le notizie sulle persone infette e poi guarite provenienti dalla Cina non sono però ancora molto chiare, così come non lo sono quelle su chi sviluppa sintomi gravi e deve restare a lungo in ospedale, per ricevere trattamenti che riducano i sintomi e aiutino il sistema immunitario a reagire.

Il sistema immunitario mantiene di solito memoria dei virus che ha incontrato, e impedisce loro di costituire nuovamente un rischio. I vaccini sono un’ottima soluzione per far sviluppare questa memoria senza che ci si debba ammalare, riducendo quindi i rischi soprattutto per le persone più esposte a causa di altri problemi di salute. L’immunizzazione e la riduzione dei contagi contribuiscono a fermare un’epidemia, evitando che si diffonda.

Mentre si lavora ai vaccini, l’attività più importante per ridurre i rischi di nuovi contagi passa dall’isolamento dei nuovi casi e dalle buone pratiche igieniche. Seppure con colpevoli ritardi iniziali da parte delle autorità cinesi, lo sforzo internazionale permise 16 anni fa di contenere l’epidemia di SARS senza che fosse ancora disponibile un vaccino, e qualcosa di analogo sarebbe successo qualche anno dopo con la MERS.

Il nuovo coronavirus, spiegato bene

Tutte le cose da sapere sul virus che in Cina ha causato la morte di oltre cento persone, e che continua a diffondersi tra la popolazione.

A causa del nuovo coronavirus (2019-nCoV), in Cina sono morte oltre 100 persone e sono state ormai segnalate migliaia di casi confermati di persone che si sono ammalate a causa del virus. La situazione continua a essere difficile soprattutto a Wuhan, città della Cina centrale dove alla fine del 2019 erano partite le prime segnalazioni di pazienti con gravi polmoniti, che hanno poi portato alla scoperta del coronavirus. Il governo cinese ha disposto l’isolamento di Wuhan e di diverse altre città, misure che interessano decine di milioni di persone e con lo scopo di ridurre il rischio di nuovi contagi.

Che cos’è un coronavirus?
I coronavirus sono un particolare tipo di virus appartenente alla famiglia Coronaviridae. In generale, i virus sono entità biologiche particolari: non sono esseri viventi veri e propri, ma hanno la capacità di invadere un organismo e sfruttarne le risorse per prosperare e moltiplicarsi, come fanno i parassiti. Per farlo, si legano alle cellule degli organismi, eludono le difese delle loro membrane e si aprono un varco attraverso il quale ne modificano le caratteristiche genetiche.

I coronavirus utilizzano come materiale genetico l’RNA, cioè l’acido ribonucleico: una versione “semplificata” del DNA, che assolve al medesimo scopo di codificare e trasmettere le informazioni genetiche. Questi tipi di virus si chiamano così perché i loro virioni (la parte infettiva) appaiono al microscopio elettronico come piccoli globuli, sui quali ci sono tante piccole punte che ricordano quelle di una corona.

Coronavirus che causa la SARS (Wikimedia)

Le punte sono formate dai “peplomeri”, le strutture proteiche che insieme ad altri meccanismi servono ai virus per attaccarsi alle cellule dell’organismo da infettare. Una volta che si sono legati alle cellule ospiti, i virus rilasciano il loro codice genetico modificando il comportamento della cellula. Questo processo fa sì che si attivi una risposta immunitaria da parte dell’organismo infettato, che cerca di sbarazzarsi del virus (solitamente facendo alzare la temperatura: in pratica viene la febbre).

Ci sono molti tipi di coronavirus?
I coronavirus sono piuttosto diffusi tra varie specie di mammiferi e uccelli: infettano il loro apparato respiratorio e gastrointestinale. Da 60 anni circa, sappiamo che in alcuni casi questi virus riescono a passare agli esseri umani, causando sintomi che variano a seconda delle loro caratteristiche. A oggi sono noti sette diversi coronavirus che possono infettare l’uomo, compreso 2019-nCoV, quello da poco scoperto in Cina. I coronavirus sono spesso tra le cause del raffreddore comune, quindi non sono così rari, ma alcuni sono più aggressivi di altri.

Perché “nuovo coronavirus”?
Viene semplicemente definito “nuovo coronavirus” un coronavirus da poco identificato e le cui caratteristiche non sono ancora completamente note; di solito col passare del tempo viene poi indicato un nome diverso, meno scientifico, con riferimento ai sintomi che provoca.

E che sintomi dà il nuovo coronavirus?
Stando alle informazioni fornite finora dalle autorità sanitarie cinesi e da quelle internazionali, il nuovo coronavirus inizialmente causa sintomi simili a un’influenza: congestione nasale (naso chiuso), mal di gola, spossatezza e febbre. In alcuni casi la malattia progredisce, creando un’infiammazione delle strutture più interne dei polmoni, e in mancanza di cure adeguate o per la presenza di precedenti malattie può rivelarsi mortale.

Un uomo viene portato in ambulanza in ospedale a Hong Kong per il sospetto che abbia contratto il coronavirus che ha provocato i contagi a Wuhan e nel resto della Cina (Anthony Kwan/Getty Images)

Come si trattano i pazienti con nuovo coronavirus?
La prima risorsa per contrastare un’infezione virale è il proprio sistema immunitario, che identifica l’infezione e sviluppa la capacità di contrastare il virus, impedendogli di fare ulteriori danni in futuro. Non esistono cure e i medici possono solamente somministrare farmaci per ridurre i sintomi, o per trattare complicazioni come la polmonite, nel caso in cui si presenti. Qualcosa di analogo avviene già con l’influenza, nel caso di pazienti con precedenti problemi di salute.

Quindi non è così grave?
Nel 2009, la pandemia influenzale da virus H1N1 (febbre suina) causò la morte di circa mezzo milione di persone in tutto il mondo. Ogni anno, a causa delle complicazioni dell’influenza comune, muoiono centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo. Il nuovo coronavirus sembra essere più aggressivo e – come tutti i nuovi virus – non deve essere sottovalutato fino a quando non se ne comprendono i meccanismi.

E la SARS che c’entra?
In questi giorni si è parlato spesso di sindrome acuta respiratoria grave (SARS, dall’inglese “Severe Acute Respiratory Syndrome”) in riferimento a ciò che sta avvenendo in Cina. La SARS è probabilmente la malattia più conosciuta legata a un coronavirus: il virus che la causa fu identificato tra il 2002 e il 2003 e porta a un’infezione diffusa del sistema respiratorio. Nel 2003 furono registrati circa 8mila casi di SARS, con un tasso di letalità del 10 per cento, quindi molto più alto di quello attuale per 2019-nCoV. All’epoca la Cina fu duramente criticata, dalla stessa Organizzazione Mondiale della Salute (OMS), per avere inizialmente nascosto le informazioni sui contagi, temendo che notizie di quel tipo potessero danneggiare l’economia in forte crescita del paese.

Chi sta studiando 2019-nCoV?
Centinaia di ricercatori in Cina e in altre aree del mondo stanno studiando le caratteristiche del nuovo coronavirus. A differenza di quanto avvenne con la SARS, le informazioni da parte cinese sono state comunicate con maggiore rapidità all’OMS e, grazie ai progressi tecnologici, il profilo genetico del virus è già a disposizione degli esperti per studiarlo e capire come agisce.

Da dove arriva il nuovo coronavirus?
Con i suoi 11 milioni di abitanti, Wuhan è la più grande città della Cina centrale. Il 31 dicembre 2019, la Commissione Sanitaria Municipale di Wuhan aveva inviato una segnalazione all’OMS, spiegando di avere registrato un certo numero di casi di polmonite con cause ignote. Le indagini avevano messo in evidenza un legame con un mercato di frutti di mare, pollame e altri animali selvatici vivi, ma una ricerca pubblicata sulla rivista scientifica Lancet mette in dubbio questa eventualità (i dati devono però ricevere ulteriori conferme). Una decina di giorni dopo la segnalazione, il Centro per il controllo delle malattie della Cina ha annunciato di avere identificato un nuovo coronavirus, studiando le polmoniti di Wuhan. I tempi di scoperta e segnalazione sono comunque ancora sotto analisi, per capire se si potesse fare prima e meglio.

Perché si parla tanto dei mercati di animali vivi?
In Cina sono molto diffusi mercati in cui si possono acquistare suini, pollame e diverse altre specie selvatiche di animali ritenuti prelibatezze per la cucina locale o utili per la medicina tradizionale, come i pipistrelli. La contiguità tra esseri umani e questi animali, unita alle scarse condizioni igieniche, fa aumentare il rischio che i virus passino da una specie animale agli esseri umani, mutando per adattarsi poi ai nuovi ospiti. Il sospetto è che qualcosa di analogo sia avvenuto in passato, con la SARS, e nelle settimane scorse con il passaggio di 2019-nCoV agli esseri umani, probabilmente proprio dai pipistrelli. Anche per questo motivo, il governo cinese sta lavorando per mettere al bando, o almeno sospendere, le attività commerciali nei mercati di animali selvatici.

Il problema riguarda solo la Cina?
Da sempre i virus circolano e si diffondono in tutto il mondo facendosi dare un passaggio dagli animali che infettano. Un tempo le malattie arrivavano per nave, come avvenne per esempio con la peste nera in Europa nel Trecento, oggi attraverso i viaggi aerei. Il problema non riguarda quindi solo Wuhan e qualche altra provincia della Cina, ma tutto il mondo. Persone provenienti dalla Cina sono risultate infette in diversi luoghi di loro destinazione, come Stati Uniti, Australia, Singapore, Taiwan, Corea del Sud, Vietnam, Canada, Giappone e Francia.

Diffusione del nuovo coronavirus nel mondo (JHU CSSE)

Quanto è contagiosa la malattia?
Attualmente non lo sappiamo con certezza. Il periodo di incubazione, cioè il tempo che passa da quando si viene infettati dal nuovo coronavirus a quando ci si ammala, è in media di 10-14 giorni. Il problema è che secondo diverse segnalazioni si è contagiosi anche nel periodo di incubazione, quindi ancora prima di sviluppare i sintomi. Questa circostanza potrebbe rendere più complicato il contenimento del virus, perché molte persone potrebbero non sapere di essere infette mentre hanno a che fare con altri, o si mettono in viaggio.

Come si viene contagiati?
I coronavirus si possono trasmettere da persona a persona, di solito in seguito a contatti stretti, in famiglia, tra amici, negli ambienti di lavoro e in luoghi molto affollati. Dalle ricerche svolte finora, il primo veicolo di contagio sembrano essere gocce di saliva e di muco da persone infette, con le quali si entra in contatto. La diffusione per via aerea sembra meno frequente, ma anche in questo caso si dovranno attendere altri giorni per avere un numero di casi più significativo da studiare.

Come ci si protegge dal nuovo coronavirus?
Le raccomandazioni delle autorità sanitarie per ridurre il rischio di infezione da 2019-nCoV sono simili a quelle indicate per le altre malattie infettive. Il consiglio è di lavarsi spesso le mani con acqua e sapone (per una trentina di secondi almeno), di starnutire e tossire in un fazzoletto o portandosi l’incavo del gomito alla bocca (in questo modo non si contaminano gli oggetti che si toccano con le mani e, al tempo stesso, non ci si porta nulla alla bocca dopo che si sono toccate superfici che potrebbero essere contaminate). Viene inoltre consigliato di evitare alimenti come frutta e verdura non lavate, bevande non imbottigliate, indicazioni utili soprattutto per chi si trova in luoghi dove è certa la presenza del virus.

Le mascherine servono?
In Cina milioni di persone circolano da giorni con mascherine, di solito di tessuto e simili a quelle che si utilizzano in sala operatoria. Può essere una buona precauzione per le persone malate per ridurre i rischi di contaminazione, mentre non è certo che offrano qualche garanzia in più a chi non vuole entrare in contatto con il nuovo coronavirus. Gli esperti consigliano soprattutto di lavarsi spesso le mani e di evitare di portarsele alla bocca o di toccarsi gli occhi, senza averle lavate prima.

Una stazione di Wuhan il 22 gennaio (Xiaolu Chu/Getty Images)

Come si contiene il virus su larga scala?
La prevenzione, tramite il controllo delle infezioni e dei luoghi in cui si sono verificate, è alla base dei sistemi per prevenire la diffusione di un nuovo virus. L’obiettivo principale è fare in modo che 2019-nCoV si diffonda il meno possibile dalle aree della Cina in cui c’è il maggior numero di contagi. La città di Wuhan e diversi altri centri urbani sono stati posti sotto isolamento, ma non è chiaro se misure così drastiche siano utili, a distanza di settimane dai primi contagi. Un problema è dato dalla quantità crescente di persone che arrivano negli ospedali con i sintomi della malattia: devono essere messe in isolamento e mantenute in questa condizione se si conferma che hanno il nuovo coronavirus. A Wuhan non ci sono posti letto a sufficienza negli ospedali, e anche per questo è in corso la costruzione di un nuovo grande ospedale prefabbricato.

E nel resto del mondo?
Il primo punto di accesso della malattia fuori dalla Cina sono gli aeroporti, quindi i controlli sono eseguiti soprattutto sui voli in arrivo dalle città cinesi. Le procedure, che variano a seconda dei paesi, prevedono solitamente l’ingresso del personale sanitario sugli aerei appena atterrati dalla Cina: utilizzando tute isolanti, gli addetti rilevano la temperatura dei passeggeri e valutano l’eventuale presenza di altri sintomi. È in questo modo che sono stati identificati i casi fuori dalla Cina, e che si sono per ora evitati successivi contagi. Le limitazioni agli spostamenti da parte del governo cinese stanno inoltre favorendo una riduzione dei flussi di cittadini cinesi verso l’estero.

In Europa chi se ne occupa?
Naturalmente i singoli stati membri, che si coordinano con il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) dell’Unione Europea. Nella sua ultima valutazione del rischio, l’ECDC ha definito “alto” il potenziale impatto di una epidemia da 2019-nCoV, definendo probabile una diffusione del virus su scala globale. Il rischio maggiore è dovuto alle persone che sono arrivate da Wuhan e da altre aree della Cina interessate dal problema prima che fosse noto il virus, mentre è più basso per chi arriva ora, considerati i maggiori controlli.

E in Italia?
Da e per l’aeroporto di Roma Fiumicino ci sono solitamente voli diretti con Wuhan, e diversi altri non diretti. La situazione viene tenuta sotto controllo negli aeroporti dagli Uffici di Sanità Marittima, Aerea e di Frontiera (USMAF) e dai Servizi territoriali per l’assistenza sanitaria al personale navigante, marittimo e dell’aviazione civile (SASN), il cui principale lavoro è proprio ridurre i rischi di importazione di malattie infettive.

Gli aeroplani provenienti dalle aree cinesi a rischio sono sottoposti a controlli per rilevare l’eventuale presenza tra i passeggeri di casi sospetti. Nell’eventualità in cui un passeggero abbia sintomi che potrebbero indicare la presenza del coronavirus, è previsto un trasferimento presso l’Istituto Nazionale Malattie Infettive di Roma, con una procedura che garantisca l’isolamento della persona malata.

C’è un vaccino?
La scoperta di un nuovo virus non implica che sia sempre elaborato un vaccino per contrastarlo: molto dipende da quanto quel virus costituisca un rischio e dalla sua capacità di diffondersi. Al momento, la cosa più pratica è contenere il virus riducendo i rischi di nuovi contagi. Le conoscenze sulle caratteristiche del nuovo coronavirus sono via via più precise e non possiamo escludere che, nel caso di una sua grande diffusione, si provveda a elaborare un vaccino, che dovrebbe però poi essere testato e verificato prima di diventare disponibile.

Tutto chiaro, ma c’è da preoccuparsi?
Senza ansie e psicosi. Un nuovo coronavirus non deve essere mai sottovalutato, soprattutto fino a quando non siano note tutte le sue caratteristiche e le modalità in cui muta, per eludere le difese immunitarie. Il numero di casi da 2019-nCoV riscontrato finora è relativamente basso, ma gli esperti concordano sul fatto che continuerà a crescere e che ci potranno essere altri morti. Per ora il virus sembra causare sintomi meno gravi rispetto alla SARS, ma può comunque avere conseguenze serie nelle persone con altri problemi di salute; ci sono inoltre sporadiche segnalazioni di complicazioni anche in soggetti giovani e più in salute che non devono essere trascurate.

In circa un mese, siamo passati da segnalazioni su casi di polmoniti anomale e gravi ad avere un quadro piuttosto dettagliato sul virus responsabile e sui meccanismi che utilizza. Rispetto a casi analoghi del passato, l’accelerazione è stata notevole e consentirà ai ricercatori e alle autorità sanitarie di lavorare meglio, soprattutto al fine di contenere la malattia.